La paura

Un racconto da Vals

Nel contesto di Archi 3/2019, dedicato a L'acqua del benessere, la rivista ospita Vanni Bianconi, poeta e scrittore locarnese, con un racconto dove, sotto il segno di una parola rubata, le Terme di Vals si specchiano nelle strade di Rio de Janeiro.

Date de publication
15-06-2019
Vanni Bianconi
Scrittore e direttore di Babel – Festival di letteratura e traduzione

Il nostro era stato l’ultimo treno a passare dal valico dell’Oberalp, poi la tempesta di neve aveva reso impossibile il transito. Così siamo arrivati all’ora prevista alla stazione dove sono sceso con la capra, l’ho legata al palo della banchina dove nessuno era venuto a riceverci, e sono risalito sul treno che si è rimesso in moto lentamente, abbiamo visto la capra legata guardare a destra e sinistra del palo e il cartello col nome del paese, a cui nemmeno le quattro A riescono a infondere luce, offuscate dalla progressione dentale, vibrata (labiodentale sonora), nasale e alveolare delle consonanti, roccia, vento, pioggia, nebbia. Che non vedevamo fuori dal finestrino, come non vedevamo un paesaggio coperto di neve o neve che cade, la neve era qualcosa di bianco che accadeva. Ma il treno l’ha attraversato, e abbiamo cambiato di nuovo, per l’ultima tratta in bus.

La mia capra l’avevo lasciata come dono per un poeta, che sarà passato a prenderla. Lo chiamo dono, ma già sapevo che sarebbe venuto il momento in cui gli avrei chiesto qualcosa in cambio. Il momento arriva ora, pochi mesi dopo, che mi trovo dall’altra parte del mondo. Gli scrivo scendendo a piedi per la strada ripida dove vivo, altrettanto ripida di quella percorsa dall’autopostale quel giorno: i sandali scivolano sul pavé di grossi sassi lucidi e sconnessi, i piedi scivolano dentro i sandali, i grandi alberi sui lati della strada non gettano ombra a quest’ora, e in cambio gli chiedo una parola nella sua lingua sursilvana.

 

Risponde quasi subito, e la parola è «aur». Può voler dire che paga la mia capra a peso d’oro. O, come spiega nel messaggio, che un poeta pagherà sempre con il minimo di lettere possibile. Quello che non sa è che «aur» è il contrario di «rua», e quello che non colgo subito neanche io è che la rua che sto percorrendo, ora risalendo verso casa, si chiama Rua Áurea. Il poeta sursilvano, forse suo malgrado, sta pagando a peso d’oro la mia capra. La parola mi serve per scrivere del luogo dove siamo arrivati con l’autopostale, il paese di Vals e le sue terme.

Di quell’ultima tratta ricordo il buio dopo l’azione della neve, e le spaccature di roccia, verticali come il salto potenziale sulla punta delle enormi formazioni di ghiaccioli. La strada finalmente piana, scura quasi senza luci, dove scompare lento il bus che ci lascia come abbiamo lasciato la capra, intabarrati di pelo. E il senso di sospensione, solo intaccato dalla nostra stanza nel condominio o dalla cena; dalle trafile per accedere alle terme il mattino dopo; dall’entrata delle terme che pare un retro di magazzino, o dai corridoi bui e dal divieto di fotografarli, dalle studiate formazioni rugginose dell’acqua sui muri. Dall’acqua delle vasche intravista al di là degli spogliatoi. Infine la sospensione scende a pelo d’acqua.

 

La malinconia è acqua che fluisce dentro l’acqua, senza che se ne percepisca traccia in superficie o che cambi la temperatura, soltanto una leggera alterazione della densità del liquido. Se l’acqua è molto trasparente e calma, dall’alto si intravede questa dualità simile a una corrente subacquea ma non è il movimento che si coglie, l’acqua nuova rimane immobile per interi minuti e la sua lucidità è diversa, ma anche questo lo si vede solo se la luce attraversa i due liquidi, sempre acqua, con la giusta angolazione e intensità. Ciò accade nei climi freddi, dove l’aria è sottile e tutto rimane più a fuoco che in una fotografia, e la malinconia è uno spazio raccolto come «aur» in Traurig.

In altri climi la malinconia è un’estensione di luce diffusa e uniforme su chilometri di onde che rifluiscono sulle onde dopo essersi infrante sui chilometri di spiaggia giallo pallido, sabbia di minuscole pietruzze morbide e translucide che fa quasi un rumore di neve sotto i piedi che ustiona ma il dolore è più facile da tollerare del calore che germina nell’aria dove sono sospese infinitesimali gocce calde che come per osmosi portano il corpo a ribollire teneramente di sudore ed eccolo il liquido che entra nel liquido, impercettibile quanto a misura d’uomo: su ogni corpo che esita sui chilometri di spiaggia senza entrare nel mare, l’acqua calda del vapore, che stira la luce fino al calare del sole e anche dopo che il sole è sceso (quasi che come il calore pure la luce sia presa nelle particelle d’acqua dentro l’aria), attira grandi gocce a fior di pelle, di poro, dove il vapore entra e la malinconia in questi climi è ovunque e la si respira.

 

A fior d’acqua, poi dentro l’acqua della vasca centrale delle terme di Vals. No, non è così. Ci si mette di più a penetrare la resistenza della superficie trasparente dell’acqua: liscia come i muri che la contengono, in realtà più porosi di lei, e lucida come l’aria fuori dalle grandi finestre tra i grandi muri (in realtà più monumentali che grandi) – l’aria così sottile che avvicina la parete della montagna dall’altra parte della valle, malgrado il fondovalle sia ampio, o meglio fa della montagna parete, fa della montagna finestra dove il bianco della neve sarebbe il vapore e le tracce scure, vegetali e umane, animali e minerali, sono i percorsi delle gocce. Che sulle grandi finestre non ci sono: l’acqua è perfettamente contenuta nell’acqua immobile nella sua vasca di muri. Si osserva tutto questo a filo d’acqua, per questo ci si mette tanto a entrare, e perché «aur» è incastonato in Mauer.

Nell’emisfero australe, al limitare della spiaggia e della strada, non è l’acqua a cento metri di sabbia di distanza a richiamare questa sottile impenetrabilità, bensì gli edifici di una decina di piani al di là delle sei corsie di strada: non muro di palazzi, ma ipermuro, che a mio avviso è ben più di un cubo o un isolato: ogni strada laterale mostra le stesse facciate di cemento anni Cinquanta, forellate di piccole finestre e scatole dell’aria condizionata come fossero schede di una macchina musicale: senza mai un balcone le facciate sempre diverse e sempre simili continuano fino alla prossima traversa e poi si ripetono di nuovo in lontananza, finché l’ipermuro © finisce dove si alzano pareti di roccia nuda, scoscese, a volte fitte di baracche, a volte di giungla, a volte di niente. Anche per questo sul limitare della spiaggia sono quasi certo di averci messo degli interi minuti ad attraversare la superficie d’acqua a Vals.

 

E che quella superficie d’acqua non riflettesse affatto le fughe azzurre del soffitto che allentano la monumentalità e così la completano. Solo pellicola, dovuta alla proprietà di coesione dell’acqua, e trasparenza e profondità, immobile e angolare. Altre proprietà dell’acqua, morbidezza e movimento, sono trasmesse al granito delle pareti, quelle dell’aria fine all’acqua, e quelle delle pareti all’aria che si posa sulla superficie e non la agita e non la fora. A differenza di noi che ora entriamo, tuffandoci a testa per dio saremmo rimasti qui altri minuti eterni se no, e sott’acqua attraversiamo l’acqua come siluri, poi passiamo a esplorare le altre vasche, tutte le altre vasche sempre più nascoste e più buie.

Che il poeta mi abbia dato questa parola perché è contenuta, intera, in «paura»? Come ci contiene la vasca più piccola, dove galleggiano e affondano petali di gelsomino, e dove non c’è nessuno con noi, non c’è mai nessuno con noi, dove gli spruzzi d’acqua mutano il cemento scuro delle pareti in macchie di Rorschach e dove il suono contiene tutto quanto: la vasca sembra racchiusa e sospesa in un vuoto di metallo, quando l’acqua trasborda il frastuono è assordante e la sua eco sembra un’esitazione che sarà seguita, quando sarà troppo tardi, da un fragore senza causa. Anche il fatto che taccia, quel fragore senza causa, mette paura e le macchie di bagnato sul cemento non asciugano, sembrano invece propagarsi.

 

Qui, ai tropici, andando in spiaggia sono passato sotto rami di alberi sdraiati e sotto i loro fiori gialli dai grandi petali. Al ritorno, quasi tutti i fiori erano per terra. Vivono poco più di un giorno, e quelli giovani sono sul terreno a faccia in su, quelli più vecchi, aranciati, arrossati, a faccia in giù: una proprietà aerodinamica fa sì che vortichino cadendo e mantengano la direzione che avevano sull’albero. La pianta è l’ibisco tiliaceo o di mare, associato a nomignoli come «bellezza delicata» e «fiore di un’ora». In sursilvano, «ora» è ura, anagramma di «aur», e nemmeno il tempo scorre nelle vasche di Vals: sembra di poter vedere la pietra che cresce, le venature del granito come cerchi d’albero, e prima che usciamo dalle vasche un’altra era geologica potrebbe essere trascorsa e l’edifico sarà di un millimetro più alto, o piuttosto si abbassa?

Si riassorbe, contrasta l’evoluzione e si popola di sauri salmastri, siamo ancora anfibi per ora.

 

Il poeta mi ha consegnato un senhal. Lauro, Laura, l’aura, l’auro. Dante ha usato il senhal con le due «donne dello schermo», per celare l’amore per Beatrice. Nel Sud della Francia nell’Ottocento il senhal è uscito di metafora, è diventato un medaglione che a scuola chi veniva sorpreso a rifiutare l’egemonia della lingua francese parlando il provenzale materno doveva portare al collo o tra i denti. Finché si imbattevano in qualcun altro con il loro stesso vizio, parlare la lingua madre, e potevano allora scegliere di liberarsene, imponendolo all’altro. Il poeta sursilvano mi ha passato il suo senhal che stringo tra i denti da quando ho iniziato a scriverne. Ma, l’aurora ha l’auro in bocca, l’aurora ha l’auro in bocca, a che cosa fa schermo? Al sursilvano per «capra», caura. La mia capra, che ora sarebbe la sua caura, l’ho presa in viaggio, partito da Ambrì, prima di salire sul trenino dell’Oberalp, l’ultimo treno a passare da lì, l’ho ricevuta a Andermatt dove il diavolo ha costruito un ponte in cambio dell’onore del nome e l’anima di una capra: i valligiani furbi gli avevano promesso l’anima di chi avesse attraversato il ponte per primo.

Chi mi ha portato la capra dietro la stazioncina di Andermatt è salito sul treno. Abbiamo attraversato la tormenta e preso il bus insieme, e scesi dal bus siamo rimasti insieme, fino dentro l’acqua delle terme, subendo la stessa mutazione in sauro. Nel dialetto di Ambrì «diavolo» si dice diauro. Solo non so se chi è venuto con me sia uscito dall’acqua. E non so se chi è uscito dall’acqua sono veramente io, o interamente io. La malinconia può essere qualcosa come acqua che entra nell’acqua, ma cosa entra nell’acqua è l’aura, il diauro non prende l’anima tutta ma una parte, e la malinconia non entra nell’acqua ma, invisibile, con moto contrario, nel vuoto nell’anima. E lì rimane in ogni ora, nella Surselva oscura come in spiaggia, acquatica di luce. A Natale come a Pasqua. Compro una capra e cucino per venti persone di qui la sua carne coriacea.

 

Questo racconto rientra nella cornice di Archi 3/2019, L'acqua del benessereQui si può leggere l'editoriale del numero e qui è possibile acquistarlo.