Drei­di­men­sio­na­le Din­ge druc­ken

Una mostra al Museum für Gestaltung di Zurigo fa il punto su un settore, quello della stampa 3D, in rapida e piena evoluzione.

Data di pubblicazione
10-04-2013
Revision
19-10-2015
Gabriele Neri
Dott. arch. storico dell'architettura, redattore Archi | Responsabile della rubrica 'Paralleli' per Archi

Fino al 5 maggio 2013 al Museum für Gestaltung di Zurigo sarà possibile visitare 3D –Dreidimensionale Dinge drucken, una mostra nata a Barcellona qualche anno fa e potenziata per l’edizione svizzera, che parla dei legami tra progetto e tecnologie di stampaggio tridimensionale. Il tema è attualissimo, come dimostra l’escalation di progetti nati grazie a sofisticate stampanti capaci di tramutare un disegno digitale in un oggetto finito, saltando buona parte della tradizionale filiera produttiva.

«L’idea è quella di svelare le potenzialità dello stampaggio 3D –ci dice Andres Janser, curatore della tappa zurighese della mostra – presentandone lo stato dell’arte e i possibili orizzonti futuri. Più che per la tecnologia in sé, il tema appare sorprendente se consideriamo le opzioni che dischiude, a cominciare dall’allargamento della libertà formale del progettista. Ad esempio abbiamo esposto una lampada progettata dal designer francese Patrick Jouin, il cui elemento principale è una specie di «fiore» composto da circa 50 o 60 elementi che si possono aprire o chiudere come fossero dei petali. Realizzarla vent’anni fa sarebbe stato troppo complesso e costoso a causa della quantità di elementi diversi, mentre con queste tecnologie tutto è stato stampato in un unico processo. Invece di assemblare insieme i diversi componenti (pensiamo a come è fatto un orologio meccanico svizzero), viene prodotto tutto nello stesso momento».

Se il concetto di stampa 3D non è una novità, essendo sfruttato già da diversi decenni, negli ultimi 5-10 anni si è assistito a un notevole salto tecnologico che – allargando il numero e il tipo di materiali «stampabili» – ha permesso l’applicazione di queste tecnologie nei settori più disparati. Favorite dalla recente disponibilità di stampanti 3D a basso prezzo, alla piccola scala si moltiplicano le sperimentazioni nel campo del furniture e del fashion design, senza dimenticare il successo dei gioielli e addirittura dei sex toys ottenuti in questo modo.

Una delle industrie più interessate alla stampa 3D rimane quella aerospaziale. «Compagnie come Boeing e Airbus stanno pensando di installare questa tecnologia nei loro terminal – spiega Janser – così da poter produrre in brevissimo tempo qualsiasi elemento costruttivo. Qualora un aereo passeggeri avesse un problema, non sarebbe più necessario aspettare l’arrivo di un pezzo di ricambio da chissà dove: basterebbe stamparlo e montarlo.» Lo stesso principio è alla base delle ricerche oggi condotte dall’esercito americano, che sta sviluppando delle speciali stampanti 3D destinate alle truppe al fronte. Invece di dover attrezzare magazzini pieni di pezzi di ricambio (per un fucile, una jeep, un elicottero), sarebbe così possibile realizzare in tempo reale il pezzo mancante, con minor spreco di spazio, tempo e materiale. Il primo «laboratorio» militare di stampa 3D, alloggiato dentro a un container e capace di stampare alluminio, plastica e acciaio, è stato spedito in Afghanistan la scorsa estate. Inoltre, diversi costruttori di aeromobili stanno già da tempo stampando per le loro flotte degli elementi costruttivi metallici molto più leggeri di quelli tradizionali, proprio perché tali tecnologie riescono a gestire forme ottimizzate, ad esempio con complesse cavità (simili a quelle delle ossa umane) che riducono del 20-30% il peso complessivo e quindi anche il fabbisogno di carburante necessario a volare. Si tratta di un processo di innovazione «invisibile»: il design esteriore sembra essere immutato, ma in realtà ci sono profondi cambiamenti all’interno dei materiali utilizzati. Gli architetti non stanno certo a guardare, anche se fino ad ora non hanno realizzato molto. Mentre sul web diversi studi si litigano il primato per «la prima casa interamente stampata» (tra le ultime proposte ci sono quelle degli studi dus Architect e Softkill Design), Norman Foster sta lavorando con la European Space Agency alla progettazione di una base sulla Luna, da realizzarsi con materiali autoctoni. Grazie alla stampa 3D si potrebbe usare direttamente la sabbia lunare, creando una serie di cupole che dai primi rendering richiamano – paradossalmente – sia le «bolle» degli Archigram sia le costruzioni in terra cruda di Hassan Fathy. Gli esperimenti sono condotti utilizzando una macchina chiamata D-Shape, messa a punto dall’ingegnere italiano Enrico Dini, capace di trasformare un materiale granulare (tipo sabbia) in solida roccia. (www.dinitech.it)

Oltre a designers, architetti e ingegneri, in mostra ci sono medici e biologi: recentemente infatti si è cominciato a stampare anche tessuti organici, come illustra un video all’interno del percorso espositivo. «La ricerca in questo campo è ancora molto limitata, dal momento che è possibile «stampare» soltanto tessuti biologici di superfici limitate – sottolinea Janser – ma presto si potrà fare molto di più.» E allora ci si accorge di come dietro a una tecnologia risiedano problemi ben più vasti: il design diventa bio-design, l’etica del progetto diventa bioetica, l’oggetto diventa soggetto.

Forse è ancora presto per parlare di rivoluzione, forse la rivoluzione non è veramente tale, o forse è già arrivata e dobbiamo ancora comprenderla a fondo. Tuttavia, l’esponenziale diffusione della stampa 3D e l’incremento delle sue potenzialità obbligano a ragionare su molteplici questioni. Ad esempio sullo stravolgimento dei rapporti tra prototipo e prodotto industriale: non avendo più bisogno di uno «stampo» dal quale ottenere la forma finale, si perde un passaggio progettuale e produttivo su cui si è concentrata buona parte del design del XX secolo. Bisogna riflettere sulla possibile diffusione capillare dell’autoproduzione grazie a stampanti sempre più grandi ed economiche; sul rapporto tra dimensione fisica e virtuale (oggi apparentemente sbilanciato) nelle diverse fasi del progetto; sul valore didattico delle nuove tecnologie; sul ruolo della ricerca formale rispetto ad altre «qualità» del progetto; e su molto altro ancora.

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