«La montagna come laboratorio»
Intervista a Luca Gibello
Il costruire contemporaneo si rivolge, sempre di più, verso prassi progettuali che tengono costantemente in considerazione tanto il recupero del patrimonio quanto il riuso degli stessi materiali da costruzione: come è evoluto nella teoria e nella pratica il tema del costruire in montagna negli ultimi decenni e su quali aspetti vedi focalizzarsi l’architettura alpina contemporanea? In particolare, quale impatto hanno avuto questi ultimi drammatici anni (caratterizzati, in particolare, dalla pandemia e dalla crisi energetica) sulla percezione della montagna e delle sue relative architetture?
Mi accodo al refrain che molti addetti ai lavori ripetono in questi ultimi anni: la montagna come laboratorio. Ma è qualcosa di più che uno slogan. Si tratta di un laboratorio quale spazio di verifica di riflessioni teoriche e di sperimentazione di soluzioni costruttive o compositive, ma anche come terreno di convivenza tra istanze differenti e, talvolta, divergenti, che riguardano il corpus sociale dei «fruitori» della montagna. Da un lato, il tema del ritorno alla residenzialità e a forme di produzione (agricola e artigianale) autoctone; dall’altro, la necessità di elevare l’offerta turistica verso una maggiore consapevolezza rispetto ai contesti. Con la condizione post pandemica e l’emergenza climatica la montagna sembra la risposta ideale: «andiamo là perché c’è più spazio, più aria pura, più verde, e perché fa meno caldo». Vero, ma questo si scontra con la necessità di pianificare i servizi e di razionalizzare l’uso di un enorme stock di seconde case vuote o sottoutilizzate, per evitare il fenomeno del mordi e fuggi, o per evitare altri inutili consumi di suolo. C’è dunque molto da fare per i territori del progetto.
Pensi che il dibattito instauratosi negli ultimi anni sulla pubblicistica del settore sia in grado d'influenzare tanto le comuni prassi progettuali quanto la sensibilità delle Amministrazioni locali sul tema della qualità del costruito e, più in generale, sui temi connessi alla baukultur nelle zone montane e pre-montane?
In un’epoca di ristrettezza di risorse e di emergenze varie mi sembra che alcuni semi di dialogo tra mondo della professione e realtà delle Amministrazioni stiano germogliando. Certamente, in alcuni casi, sebbene ancora troppo sporadici, si registra un mutamento di sensibilità, un’inversione di rotta. Finalmente non si iterano più modelli ormai superati. In questo, la condizione di crisi generalizzata ha dato una scossa. Alcune situazioni sono giunte al collasso; in altre, è stata l’occasione di rinascita. Incontri, seminari, linee guida, progetti pilota e buone pratiche ormai si registrano un po’ ovunque sulle Alpi. Talvolta, sono iniziative promosse dagli amministratori, talaltra provengono invece dal basso. Penso, per restare al Piemonte, ove risiedo, al caso del Comune di Ostana (Cuneo) sul primo fronte, o all’impegno dell’associazione Canova nel rivitalizzare un paio di borghi intorno a Domodossola nel secondo.
I diversi premi che ogni anno vengono banditi e assegnati ad architetture costruite in montagna mantengono vivo un filone di ricerca progettuale esplorato con gran forza anche dalla Modernità: in questo ambito, secondo te, ci sono dei progettisti che con le loro architetture montane dimostrano di voler instaurare un rapporto attivo e sinergico con la storia o vedi le attuali prassi come maggiormente sottomesse ai soli parametri imposti dalle scelte tecnologiche?
Non di sola tecnologia vive l’uomo. O, meglio, essa può rientrare all’interno di un approccio ben più ampio. Guardo con particolare interesse e ammirazione coloro che, radicati in un territorio, lo «possiedono» in ogni aspetto, ne conoscono gli attori, le potenzialità e le criticità. A partire da questa condizione, e animati da vera passione, essi riescono a operare con continuità, cercando di stabilire relazioni, di attivare processi di filiera produttiva, valorizzando le risorse locali (materiali, umane, economiche). Credo molto a questa filosofia, una sorta di «architettura a km zero» in grado di intercettare esigenze, definire funzioni, attivare cantieri e saperi. Un atteggiamento virtuoso, che produce opere emblematiche, ovvero ricche di contenuti e di valori simbolici, lontane dalle mode e dagli autoreferenziali esercizi formali. Nel solco di un magistero che, in Svizzera, ha ormai consegnato al mito la figura di Gion Caminada, o sta per farlo con Armando Ruinelli, sul versante meridionale delle Alpi, ovviamente su scala minore, sottolineo, su tutti, l’impegno di Dario Castellino nel Cuneese (seguito da figure più giovani come gli studi Officina 82 e Ellisse); quello di Massimo Crotti e Marie-Pierre Forsans tra Cuneese e Torinese; di Federico Mentil in Carnia, o di Enrico Scaramellini in Valtellina. O ancora, a livello accademico, i contributi di Antonio De Rossi e Andrea Bocco presso il Politecnico di Torino.
Parlando con te che, da oltre dieci anni, porti avanti da Torino i tuoi studi sull'architettura montana, sarebbe grave omettere qui un riferimento al lavoro di Carlo Mollino, nel cinquantesimo della sua morte: nell’ambito dei suoi progetti che hanno visto declinare in vario modo il tema della pendenza e del costruire in montagna, qual è secondo te la principale lezione che Mollino ha lasciato alle più giovani generazioni e che ritieni ancora valida?
Mollino ha lasciato molte lezioni, a partire dal suo stile di vita, ma, come giustamente osservate, occorre capire quali siano ancora valide. Credo che, per molti versi, Mollino sia l’emblema di quella modernità di cui oggi paghiamo a caro prezzo le conseguenze, con un approccio spregiudicato, seppur sapiente, al costruire, che oggi è davvero anacronistico. Pensiamo, nella conca del Breuil, alla Casa del Sole che, inutile negarlo, ha aperto alla grande dimensione a Cervinia; o alla stazione d’arrivo della funivia del Furggen: affascinante abbarbicamento alla scoscesa parete rocciosa, oggi indifendibile dal punto di vista degli impatti ambientali. Ciò che invece è ancora valido è il suo ottimistico slancio visionario; ne abbiamo tanto bisogno oggi, per saper vedere qualche luce oltre il tunnel di questo inquieto e fosco presente.
Biografia
Luca Gibello (Biella, 1970), laureato in Architettura al Politecnico di Torino (1996), dove consegue il dottorato in Storia dell’architettura e dell’urbanistica (2001). Ha insegnato Storia dell’architettura contemporanea e Storia della critica e della letteratura architettonica al Politecnico di Torino e all'Università di Trento. Tra i fondatori de «Il Giornale dell’Architettura» nel 2002, dal 2004 è caporedattore e dal 2015 direttore. Pubblicista, è autore di volumi e di saggi critici e storici. Con il libro Cantieri d'alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi (2011, tradotto in francese e tedesco; nuova edizione 2017), ha unito l'interesse per la storia dell'architettura con la passione da sempre coltivata verso l'escursionismo e l’alpinismo (ha salito tutte le 82 vette delle Alpi sopra i 4000 metri). In seguito, con Roberto Dini e Stefano Girodo ha pubblicato Rifugiarsi tra le vette. Capanne e bivacchi in Valle d'Aosta dai pionieri dell'alpinismo a oggi (2016), Rifugi e bivacchi. Gli imperdibili delle Alpi. Architettura, storia, paesaggio (2018). Con Roberto Dini, nel 2012 ha fondato l'associazione culturale Cantieri d'alta quota, di cui è presidente.