L'ar­chi­tet­tura oltre l'atto del cos­truire: in­con­tro con Anne La­ca­ton

Anne Lacaton è stata insignita del Premio Erna Hamburger 2022, assegnato dalla Fondazione EPFL-WISH a un/a studioso/a che si sia distinto nella sua disciplina. Incontro con l’architetta – vincitrice del Pritzker 2021 insieme a Jean-Philippe Vassal – impegnata negli ambiti della formazione, del clima e della trasformazione dell’esistente.

Date de publication
22-03-2023

Conosciamo bene la determinazione dello studio Lacaton & Vassal a cercare, quando possibile, di non demolire ciò che può essere ristrutturato, di conservare piuttosto che radere al suolo e di rendere duraturo ciò che già esiste. Oggi la sobrietà energetica e le prescrizioni a conservare l'esistente sono di dominio pubblico. Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal sono stati tra i primi a impegnarsi in una concezione più sostenibile dell'architettura, attraverso i loro progetti. Sostenibile secondo i tre pilastri fondamentali: sociale, economico ed ecologico.

Nel 2011, in occasione della trasformazione della torre Bois-le-Prêtre a Parigi, lo studio Lacaton & Vassal e Frédéric Druot hanno sicuramente aperto la strada del rinnovamento energetico, ma anche quella della generosità, con una visione basata sullo spazio: spazio libero, non programmato, che permette di considerare un appartamento come una villa. «Al di là della funzionalità, vogliamo proporre abitazioni che offrano libertà e comfort. Ciò che dovrebbe essere basilare è oggi troppo spesso un fattore di esclusione».

Anne Lacaton si esprime in modo semplice, efficace e incisivo. Quando le viene chiesto quale messaggio desidera trasmettere da questa piattaforma, risponde umilmente: «Non ho un messaggio particolare da trasmettere; spiego ciò che facciamo e poi la gente capisce cosa vuole».


Il Premio Erna Hamburger – dedicato alla prima professoressa ordinaria dell'EPFL - è, per definizione, un premio femminista. Ritiene che le architette debbano avere maggiore visibilità o, piuttosto, che l'architettura debba essere femminilizzata? In altri termini, dovremmo promuovere o cambiare il modello?

Si tratta di argomenti molto delicati, che vanno affrontati con cautela. Ma il fatto che il lavoro delle donne sia valorizzato è ammettere l'esistenza di un problema. Se le cose fossero normali, se ci fosse una normale convivenza, non dovremmo più parlare di femminismo. Purtroppo, siamo costretti a constatare che non è ancora così. Mentre trovo giustificati premi come questo, mi imbarazzano di più i premi professionali rivolti alle «donne architetto», come se ci fosse un modo di pensare l'architettura specifico per le donne. Credo, invece, che il modo di pensare l'architettura sia soprattutto personale. Ho studiato durante uno dei periodi maggiormente permeati dal femminismo e sono davvero delusa che non siamo andati molto avanti.


Su 51 vincitori del Pritzker, lei è solo la sesta donna a essere stata premiata. Che cosa ne pensa?

È ancora più difficile da capire perché mi sembra che al momento ci siano più studentesse che studenti nelle scuole di architettura. Questa proporzione dovrebbe riflettersi meglio nei premi di architettura. Non me lo so spiegare, e sono semplicemente delusa di questa situazione.


Quest'anno si è svolta un’iniziativa partecipata che ha invitato tutta la comunità degli architetti dell'EPFL a interrogarsi sul ruolo dell'architetto. Una delle domande poste era: "Architetto, dove sta il disagio?” Lei pensa che vi sia un certo disagio nella professione?

Sì, penso che ci sia un certo malessere nella professione, che era molto strutturata su una visione piuttosto antiquata. E alla fine, di fronte a cambiamenti rapidissimi, l'architetto, nella sua visione per forme e immagini, non riesce a stare al passo con questi cambiamenti. Il modello dell’architettura sta diventando più complesso. La domanda – forse anche più di un disagio – verte su quale sia veramente la funzione dell'architetto. Ma io la vedo più come un'opportunità per riscoprire un ruolo più intelligente, più trasversale e più a monte nelle riflessioni. L'architettura non è solo costruire qualcosa, ma è molto di più. Studiare architettura, e lo spettro delle materie della disciplina, ci mette in un’ottima posizione per pensare a temi complessi e molto ampi.


Un’altra delle domande proposte dal sondaggio partecipato era: «Quali sono gli architetti di domani?». A livello didattico, quali discipline si dovrebbero insegnare oggi nelle scuole di architettura?

Sono così tanti i temi nell’architettura, che non si possono insegnare tutti. La cosa principale è formare un modo di pensare, una mente aperta. È solo dopo, riflettendo sui progetti, nel modo in cui li affrontiamo, che possiamo cambiare le cose: impiegando un buon livello di competenze e conoscenza. L'architetto è il catalizzatore di tutti questi aspetti ed è un ruolo che trovo affascinante. Siamo stati portati a credere che il ruolo dell'architetto si limitasse a quello di disegnare le facciate o di produrre immagini, senza pensare a niente: oggi, credo che abbiamo, come architetti, l'opportunità di riscoprire un luogo dove siamo attori e attrici fin dall'inizio del processo.


Lei ha costruito una scuola di architettura molto particolare a Nantes. Come si potrebbe esprimere formalmente il modello didattico ideale?

Lo spazio in cui impariamo influenza necessariamente l'insegnamento. Tuttavia, sarebbe molto semplicistico concentrarsi solo su questo punto, soprattutto per una scuola di architettura. L'edificio diventerebbe, per così dire, una lezione di architettura, cosa che abbiamo evitato di fare. A Nantes abbiamo proposto un 50% di spazio non programmato in più. La scuola diventa, allora, un luogo in cui gli studenti e gli insegnanti sono chiamati a utilizzare lo spazio per farne qualcosa. Dieci anni dopo, possiamo constatare che il sistema funziona. C'è una grande dinamismo all'interno della scuola, che convoglia molte attività (fashion week, festival dell'arte, programmi radio, ecc.) Per questo motivo era davvero importante ampliare e dilatare lo spazio: questo spazio in più è uno snodo, funge da spazio pubblico.


È un tema che si ritrova nella maggior parte dei suoi lavori, così come la profondità di spessore della facciata nei progetti di trasformazione delle case popolari.1

Sì, la facciata non è un limite. È uno spazio che crea un insieme di relazioni, che crea una transizione. È un'interfaccia che non viene fissata in modo definitivo, con il pretesto che deve proteggere dal freddo in inverno. Ma la facciata, come indica il nome, è stata pensata per secoli come un volto. È stata a lungo un elemento di rappresentazione. Ma non è la rappresentazione in quanto tale a interessarci particolarmente: anche se alla fine c'è, ed è creata effettivamente dall'edificio. Quello che ci interessa è la natura degli scambi che si possono ottenere, siano essi emotivi, termici o visivi.


Con l'attuale crisi energetica, pensa che dovremmo adattare l'esistente agli standard normativi o, viceversa, gli standard normativi all'esistente?

Prima di tutto, bisogna conservare il patrimonio esistente e usarlo. Oggi demoliamo troppo e perdiamo troppe funzionalità e potenzialità. Ho sentito che alcuni sostengono la necessità di smettere di costruire: ecco, dobbiamo smettere di costruire ma per farlo, non demolire è una condizione essenziale. Se ragioniamo con buon senso, il rapporto con la natura, l'ambiente, l'uso dell'energia e dei materiali è qualcosa che ha sempre funzionato nell’architettura. È solo nell'ultimo mezzo secolo che lo abbiamo dimenticato: dobbiamo quindi ritornare a quel punto. Oggi ci si concentra molto sul riutilizzo di materiali provenienti da edifici distrutti. Ma l'approccio migliore sarebbe quello di non demolirli. Anche se siamo molto virtuosi e molto bravi nel riutilizzo, non possiamo riutilizzare tutto. Produrremo molto rapidamente una grande quantità di materiali da riciclare, che non saremo poi in grado di riciclare. Ecco perché è meglio mantenere le cose al loro posto, utilizzarle, trasformarle.

Traduzione dal francese: Francesca Acerboni

Nota

 

1 Frédéric Druot, Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal, PLUS - Les grands ensembles de logement, territoires d'exception, GG, 2004