Ri­uso: il mes­tie­re del­l'­ar­chi­tet­to, il suo om­be­li­co e alt­ro

A proposito di alcune questioni

Andrea Roscetti intervista Martin Boesch, Architetto, professore presso l'Accademia di Architettura di Mendrisio e responsabile dello studioRiuso.

Publikationsdatum
07-08-2017
Revision
07-08-2017

Andrea Roscetti: Nella sua ultima pubblicazione Yellowred sono visibili interventi di riuso su edifici esistenti, di diverse categorie, rappresentati con i caratteristici colori per le demolizioni e la nuova costruzione.

Martin Boesch: Yellowred è una pubblicazione della mia cattedra, del corso di progettazione con il tema «riuso» all’Accademia di architettura di Mendrisio. Yellowred è il frutto della collaborazione con João Machado, Laura Lupini e Federico Pompignoli che hanno lavorato con insistenza per arrivare a questo risultato. Si tratta di un libro fatto da architetti per architetti con gli strumenti degli architetti. In questo caso la maggior parte del materiale sono disegni, o più precisamente ridisegni in nero, giallo, rosso, alcune foto e brevi testi descrittivi. Le origini si trovano nel periodo del mio insegnamento all’IAUG (Institut d’architecture de l’Université de Genève) dove, tra il 1998 e il 2007, la babele di linguaggi imponeva di comunicare con l’aiuto dei disegni. Negli ultimi anni il codice di colore, nonostante si conosca il suo uso fin dal XVII-XVIII secolo, si è emancipato dall’uso limitato alla domanda di costruzione nel caso di trasformazioni. Oggi, anche nell’insegnamento, lo usiamo per le analisi, per la progettazione e per la rappresentazione. Yellowred è strutturato in tre parti: la prima, più ampia – dopo l’editoriale – è costituita da progetti attuali, la seconda, più breve, illustra esempi storici e l’ultima parte, denominata Wunderkammer, presenta liberamente degli studi che possono affrontare anche solo marginalmente il tema del riuso.

Il primo volume dimostra che il tema del riuso, il lavoro progettuale dell’architetto con gli edifici esistenti, è ampiamente diffuso e fa parte del quotidiano operare di uno studio di architettura. L’obiettivo è di realizzare altri volumi approfondendo temi specifici come per esempio le case di abitazione e le Siedlungen. Il ruolo strumentale del libro è fondamentale.

L’intervento sull’edificio esistente ha meno appeal per l’architetto, che non riesce a identificarsi con un’oggetto che non sente proprio; forse per la difficoltà di impersonarsi con il «rosso»?

Lavorare con un oggetto che è stato pensato, concepito da un altro, è la vera difficoltà del progetto di riuso. Anche identificarsi con l’oggetto è un atteggiamento limitante. Conoscerlo bene, considerare i valori materiali e immateriali, debolezze e mancanze, trovare l’equilibrio tra empatia e distanza critica; in altre parole, avere uno sguardo oggettivo, «freddo», come un buon medico di famiglia, difenderlo contro delle esigenze troppo invasive, come un buon avvocato significa identificarsi con un caso specifico, che si distingue, pur avendo tanto in comune, da altri.

Da parte dell’architetto il progetto di riuso richiede la massima attenzione per l’oggetto preesistente e non per il proprio ombelico. Lavorare con edifici esistenti significa considerare che esiste già un’architettura, pensata da altri prima di noi: il punto di partenza di un progetto è dunque la logica stabilita da un altro: sono gli edifici esistenti e le loro regole i nostri trattati e i nostri indirizzi normativi.

La scelta delle opere contenute nel primo volume di Yellowred dimostra la ricchezza del tema riuso, sia per quanto concerne il carattere degli edifici sui quali si interviene che per le modalità di intervento. Qui cito solo i nomi degli architetti pubblicati: Álvaro Siza Vieria, Sergison Bates architects, José Ignacio Linazasoro, 51N4E, Lacaton & Vassal, Caruso St. John architects, Diener & Diener Architekten, Miller & Maranta e OMA. Tra gli esempi storici sono rappresentati quelli di Ludwig Mies van der Rohe, Adolf Loos, Le Corbusier e Aldo van Eyck. Non si può dire che il riuso non abbia appeal. E aveva appeal già molto prima di noi, lo dimostrano i seguenti esempi storici:

  • Palazzo Farnese, Caprarola 1550: la forma della struttura precedente, un castello a forma di pentagono, produce il progetto che ne muta la nuova funzione in palazzo. Le due parti sono inseparabilmente correlate e formano un tutt’uno.
  • Teatro di Marcello, Roma 500: la forma della struttura precedente, un teatro, anche in questo caso produce il progetto che ne muta la nuova funzione in palazzo. All’esterno le diverse fasi si esprimono nei materiali e nei tipi di aperture.
  • Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri nelle terme di Diocleziano, Roma 1563: Michelangelo reinterpreta le strutture monumentali ma rovinose delle terme romane trasformandole in una chiesa rinascimentale. La facciata di epoca romana è leggermente modificata per adattarsi al nuovo uso, ma senza perdere i suoi tratti distintivi. I due caratteri, quello esterno e quello interno, sono estremamente contrastanti.
  • Tempio di Faustina e Antonio a Roma: tra il 600 e il 700 il tempio romano diventa la chiesa di San Lorenzo in Miranda, rimanendo un luogo di culto. La facciata aggiunta durante il periodo barocco, nel 1602, è l’espressione della funzione di chiesa. Il riuso dell’edificio come chiesa preserva il tempio antico.
  • Palazzo Rucellai a Firenze: con la realizzazione della nuova facciata, tipologicamente innovativa, realizzata tra il 1455 e il 1462, Leon Battista Alberti unifica diversi edifici e li rappresenta come un unico palazzo. Solo lo studio di piante e sezioni ne svela le relazioni.
  • Tempio Malatestiano, Rimini 1452: Leon Battista Alberti sovrappone alla struttura romanico-gotica lo strato rinascimentale. L’effetto di questi due ordini, l’irregolare e il regolare, è discreto e si evidenzia solo al secondo sguardo.
  • Castelvecchio, Verona 1958: qui la sovrapposizione a una finestra gotica di una nuova finestra disegnata da Carlo Scarpa vive del contrasto tra ritmo e metro e questo momento sincopato vuol essere notato.

Diener & Diener con il Naturkundemuseum a Berlino, Valerio Olgiati con Das gelbe Haus a Flims, David Chipperfield con il Neues Museum a Berlino (che lo ha portato, soprattutto in Germania, a essere considerato lo specialista a cui affidare gli interventi più difficili), Herzog & de Meuron con la Tate Modern di Londra e la Elbphilharmonie di Amburgo, OMA con la Fondazione Prada a Milano, il Fondaco dei Tedeschi a Venezia e il Garage Museum of Contemporary Art di Mosca o Lacaton Vassal e altri, con le loro opere e l’enorme visibilità che hanno ottenuto grazie al loro formidabile riscontro mediatico, hanno contribuito in maniera determinante all’emancipazione del tema riuso.

I temi della sostenibilità (in termini di conservazione e impiego delle risorse) sono una chiave per rendere l’intervento di risanamento e riuso più frequenti?

Nonostante l’aumento della consapevolezza ambientale di questi ultimi anni, diventata un tema di dibattito più presente e forse anche urgente, non sempre questi processi globali e complessi mutano sotto la spinta della buona volontà di ognuno di noi. Anzi, il più delle volte, l’acceleratore di questi processi, che spingono verso l’intervento di risanamento energetico sul patrimonio costruito e desueto, sono questioni più materiali, come ad esempio il prezzo del petrolio e/o gli incentivi economici; questa è la base, a volte anche poco nobile, per generare un processo di trasformazione di un edificio o di un quartiere. Per ragioni di efficienza e costi si combinano spesso il miglioramento energetico con altri interventi (impianti, comfort, funzionamento, statica, resistenza sismica ecc.).

Sempre, in ogni caso, si pone la domanda di quale espressione architettonica assumerà il manufatto dopo l’intervento, del suo carattere, che non dev’essere subordinato a un‘unica richiesta specifica.

Pensiamo per esempio a nuovi elementi come gli impianti per l’acqua, il bagno, il gabinetto, l’elettricità, la luce artificiale, la cucina, il riscaldamento ecc., in un primo momento sono stati considerati elementi tecnici aggiunti in modo puramente pragmatico. Il loro carattere additivo era evidente. La loro integrazione negli edifici, non solo tecnica ma anche architettonica, è stata spesso un processo molto lungo.

Oggi, nel risanamento energetico, sono due i nuovi elementi su cui riflettere: l’isolamento termico di grande spessore e i panelli solari. Dobbiamo essere coscienti che tutti e due sono all’inizio del lungo cammino verso l’integrazione architettonica, verso la sintesi. Al contempo dobbiamo rimanere vigili osservando le strategie, le tecniche, quali altri sviluppi sono in atto e non bloccarli. Dobbiamo chiedere regole più elastiche per il risanamento degli edifici esistenti, e la possibilità di interpretarle in modo più flessibile. Questo vale per tutti gli edifici esistenti, anche per quelli non tutelati, lontani dallo status di monumento. Nell’insegnamento insisto nella distinzione tra edifici che si caratterizzano, in rapporto al progetto di riuso, per qualità, e quelli che si caratterizzano per quantità (ovvero dimensione). Vogliamo considerare le loro qualità, forse mediocri, o meno come una quantité négligeable? Gli architetti hanno precise responsabilità che vanno oltre gli edifici definiti come monumenti, che peraltro in Ticino sono limitati quasi esclusivamente a chiese, castelli e alcuni palazzi.

I caratteri dell’architettura (funzionali, formali o altro) da mantenere o da valorizzare: come possono essere riscoperti, valorizzati, o infine anche ragionevolmente rimossi?

Dobbiamo differenziare gli edifici sotto tutela da quelli senza classificazione. Per ogni edificio tutelato esiste una valutazione che ne attesta lo stato. C’è sempre un margine di manovra per intervenire, spesso modesto, che è da ricercare e definire attraverso il progetto architettonico.

Nel caso degli edifici senza classificazione la loro valutazione è demandata all’architetto stesso: è una sua responsabilità specifica. Le indagini volte a scoprire i valori culturali, storici, tipologici, funzionali, strutturali, materiali ecc. precedono il progetto. Questo esercizio diventa strumento di analisi portando alla concretizzazione del progetto. La ricerca progettuale scopre l’argomento per l’intervento e non esclude a priori la possibilità di una demolizione parziale o totale. È una valutazione caso per caso.                  

Come formare una cultura del progettare sull’esistente? Ci sono delle regole? Qual è il ruolo della scuola?

Una forte identità culturale dovrebbe essere nutrita da una grande curiosità verso quello che succede attorno ed essere capace di scegliere, con grande libertà, sapendo integrare senza perdere la propria identita. Se parliamo di una cultura del progettare sull’esistente in Ticino si potrebbe argomentare che questa sia, per alcuni versi, troppo rinchiusa su se stessa e prigioniera di certe maniere. Vale la pena di ricordarsi della Carta di Venezia del 1964 e delle regole stabilite nel senso di una «costituzione». Regole che richiedono un’interpretazione. Una delle regole chiave per l’architetto prescrive che l’intervento sul costruito debba essere leggibile. Ma non dice come e quanto. In una prima fase questa leggibilità è stata interpretata cercando la massima differenza tra l’esistente e il nuovo, o meglio ancora, inserendo un terzo elemento tra le due parti. È però emersa una critica fondata che ha ritenuto molti risultati della prima fase di attuazione problematici, perché erano segreganti e non integranti e producevano solo frammenti e non sintesi. La strategia del contrasto sopravvive però come un automatismo, in finis distruttivo. Avendo fatto tesoro delle criticità evidenziate dalla prima fase, altrove si è sviluppata la tendenza ad avvicinare il nuovo al vecchio, sempre lavorando con elementi contemporanei (ma bisogna riflettere sulla vastità del concetto di contemporaneità) e così risultano delle nuove unità, delle nuove entità più complesse. La leggibilità esiste anche in questi casi, ma è più sottile e meno didattica ed evita la volgarità; percepire l’intervento solo al secondo sguardo può essere considerato un complimento per l’architetto. Idealmente l’architetto che opera la trasformazione dovrebbe avere quantomeno la stessa capacità dell’architetto che ha ideato il manufatto.

Cito qui le cinque regole del progetto di riuso e una sesta regola sintetica (vedi anche Archi 2/2011, pp. 37-39):

  1. Rafforzare l’identità dell’architettura dell’esistente.
  2. Le risposte a ogni domanda sono da cercare prima nel catalogo degli elementi e delle regole stabilito dall’architettura dell’edificio esistente.
  3. Se la regola n. 2 non porta a nessuna risposta, bisogna elaborarla partendo della logica interna dell’architettura dell’edificio esistente.
  4. Per ogni domanda la risposta va cercata seguendo queste stesse regole del gioco. Bisogna omettere qualsiasi automatismo o cliché. Le eccezioni richiedono argomenti.
  5. Il dubbio sia sempre il vostro compagno.

Segue la sintesi. «Weiterbauen: continuare con le regole dell’esistente, interpretandole con cautela».

Queste regole valgono alla scala architettonica come alla scala urbana.

Già anni fa all’Accademia di architettura di Mendrisio si sono resi conto della mancanza di una preparazione progettuale e professionale nell’insegnamento del tema; la sua attualità è importante ma nel futuro il tema sarà sempre più rilevante. Così nel 2005 la facoltà ha istituito la cattedra di Progettazione che tratta costantemente il tema riuso. È unica. E si distingue dalle scuole di restauro, indubbiamente necessarie, che applicandosi unicamente al monumento, praticano il culto della conservazione. Nel corso riuso si impara e si coltiva il rispetto per il quotidiano e a operare con cautela con lo strumento del progetto anche in questo ambito, che generalmente non gode di grande attenzione. L’atteggiamento, l’attitudine, la sensibilità e il sapere acquisiti qui rendono capaci di confrontarsi anche con le architetture di più alto valore e con questioni a scala urbana.

Sostituzione, risanamento, manutenzione: è una decisione difficile. Quali sono gli attori principali e che cosa non funziona nell’edilizia attuale? Quale il ruolo dell’architetto per il futuro di questo tema cosi attuale?

Il risanamento energetico degli edifici esistenti, di cui certamente non neghiamo la necessità e l’urgenza, spesso è affrontato come un problema puramente tecnico e conseguentemente organizzato e realizzato dal facility management o altre ditte del settore. In altre parole, la grande maggioranza degli edifici da risanare non arriva negli studi degli architetti, e anche nel caso vi arrivassero, non vi è garanzia che siano a disposizione i mezzi adeguati all’intervento.

Le norme obbligano. L’architetto ha sempre imparato, prova dopo prova, a integrare le nuove richieste e arrivare a una nuova sintesi. Quella che era una nuova esigenza generalmente diventava parte integrante del progetto. Ma le norme – Minergie, per esempio, è diventato lo standard da applicare a tutti gli edifici pubblici o finanziati dall’ente pubblico – possono bloccare altre ricerche e sviluppi. La subordinazione, il sacrificio della complessità dell’architettura al monopolio di una singola richiesta è un pericolo continuo. L’architetto deve saper differenziare tra i veri e i falsi problemi. È l’avvocato dell’architettura. L’architettura è tale soltanto quando integra. Tutta la costruzione è una questione culturale. L’obiettivo dell’architetto deve essere la sintesi; definire il buon equilibrio tra tutte le necessità di diversi caratteri. Fin dall’inizio deve dialogare e collaborare con specialisti curiosi e interessati a sviluppare congiuntamente progetti e concetti. Nella complessità e tra forze anche divergenti, la lead deve rimanere all’architetto che assumerà il ruolo di regista.

La causa di un progetto non riuscito è prima di tutto da ricercare in se stessi.

È sufficiente il supporto da parte delle istituzioni o ci sono strumenti legislativi da implementare?

Solo a prima vista le osservazioni che seguono non hanno a che fare con il tema. Mancano esempi e strumenti per rendere attrattivo vivere nelle città ticinesi, mancano modelli che sappiano sedurre gli abitanti per la vita in città piuttosto che il vivere nei cosiddetti paesi, nello sprawl ticinese. Mancano contro-modelli alla casa unifamiliare, che in Ticino è il problema di base che si oppone a un concetto di sostenibilità che non si limiti alla riduzione della CO2, ma che comprenda il paesaggio che lasceremo ai nostri figli.

Concentrare! In centri come Bellinzona, Biasca, Locarno, Ascona, Lugano, Chiasso.

Negli anni Settanta, quarant’anni fa, arrivarono da tutto il mondo in Ticino per ammirare la nuova architettura che faceva risvegliare, con un sussulto, la speranza per la città, la sua forma e il suo sviluppo; a partire dall’elemento più piccolo, la casa unifamiliare, si poteva aspirare alla città. Quest’ultima, anelata e studiata anche grazie a testi storici come L’architettura della città di Aldo Rossi e ai convincenti argomenti dei protagonisti locali.

Oggi, disillusi, possiamo vedere la bellezza di un paesaggio all’epoca meraviglioso, solo strizzando gli occhi. Continuando a credere alle qualità positive della città, vediamo la città diffusa e dispersa.

Il «vuoto», un termine spesso usato all’epoca, lo spazio non costruito di alto valore urbano, con una funzione ben precisa, con una forma ben definita e in contrasto al costruito, è consumato, è vittima della fame di spazi per la casa unifamiliare, le zone industriali e depositi.

Né case unifamiliari – anche in grande quantità –, né poche stecche parallele (o non-paralelle), né palazzine posate come valigie sul territorio «fanno» città. Forse la città ha bisogno di figure più complesse, di spazi più urbani come la strada, intesa come spazio, e della sua sorella, la corte. E non dimentichiamo alcune piazze che sono vere piazze e parchi che sono veri parchi e non hanno solo un ruolo ornamentale.

Gli speculatori del Novecento hanno lasciato più città degli investitori di oggi. Una cultura del territorio che si rispetti esige che strumenti come i piani regolatori e i masterplan tornino nelle mani dell’architetto.

E, forse, se le banche in Ticino si aprissero ad argomenti sociali, diventassero coscienti della loro responsabilità sociali, potrebbero iniziare a essere promotrici di credito anche alle cooperative, sostenendo le Siedlungen promuoverebbero il cambiamento necessario alla città (è da notare che la Siedlung, insediamento che può concentrare le qualità positive per la città e per la vita quotidiana, in Ticino a tutt’oggi non esiste). C’erano buone ragioni per imparare dall’architettura nel Ticino, come oggi ci sono buone ragioni per imparare da città come Zurigo o Basilea. E va da sé che gli esempi per imparare sono ad alta performance anche dal punto di vista energetico. Learning from ...

O, se parliamo di Città, è soltanto retorica?                 

E infine una favola intitolata High-performance.*

In un paese premiato e visitato da delegazioni internazionali per aver risanato energeticamente tutti gli edifici: isolamento esterno, intonaco, nuove finestre e pannelli solari sul tetto, parola d’ordine high-performance, dopo le prime notti fredde l’intera popolazione – ben istruita, per evitare ogni perdita di calore, si chiuse ermeticamente (grazie alle nuove finestre) in casa – per morirvi poco dopo. I corpi, che portavano segni di asfissia, furono interrati. Dopo, per pietà, nessuno volle più vivere in quelle case. Anni dopo il legno, lo scheletro delle case, marcì. Non si vedeva nulla; dietro l’intonaco l’isolamento teneva in piedi gli edifici. Un giorno un grande fumo nero segnalò la fine del paese. Il fuoco, alimentato da un forte vento, spazzò via le «case» come fossero di carta. Grazie al calcestruzzo sopravvissero i resti di alcune tra le case più moderne. Ora vengono visitate come testimoni di un’epoca e in memoria della devozione totale a un unico ideale. Nessuno si sente colpevole di quanto accaduto.

Vorrei concludere con un’osservazione. Forse il Mediterraneo si cristallizza nell’ideale di città.

* NdR. Il testo è antecedente all’incendio che ha distrutto la Grenfell Tower di Londra

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