Lo­ren­zo Giu­lia­ni e Chris­ti­an Hön­ger

Otto domande

Lorenzo Giuliani e Christian Hönger rispondono alle Otto domande de "Lo spessore dell'involucro".

Publikationsdatum
20-10-2016
Revision
20-10-2016

Prendiamo la prima frase del libro di Aldo Rossi L’architettura della città e giriamola; quello che ne risulta è che l’architettura va soprattutto intesa come una città, ciò significa, in altre parole, che l’architettura si colloca in un contesto specifico. Un contesto a cui è legato però sempre anche un quadro storico, socioculturale ed economico, con il quale l’architettura si mette in relazione. Mettersi in relazione significa adottare un approccio aperto a livello di contenuti, un approccio consapevole e chiaro che indica un’analogia, un’interpretazione, uno straniamento, un contrasto e così via. 

L’architettura è, per sua stessa natura, indivisibile. Pertanto, anche l’involucro di un edificio non può essere considerato come un concetto a sé stante; è soprattutto un tema culturale-architettonico,1 non tanto una questione tecnico-costruttiva. L’involucro rappresenta l’interfaccia di un sistema che serve, in primis, alla comunicazione: è insomma uno strumento per interiorizzare una propria visione del mondo e per esteriorizzare la relazione con l’ambiente. Ecco perché quello dell’involucro è un tema estremamente complesso, molteplice e sfaccettato. Nel patrimonio costruito, l’involucro forma, unendosi alla struttura e alla tecnologia dell’edificio, un triumvirato di forze ed energie. È partendo da tali premesse che abbiamo risposto alle domande che ci sono state sottoposte.

1. In che modo secondo lei l’evoluzione delle richieste energetiche e di «comfort» ha cambiato negli ultimi vent’anni il modo di concepire una facciata?

Negli ultimi vent’anni sono stati introdotti diversi standard energetici; in Svizzera, primi fra tutti gli standard Minergie, che raccomandano con veemenza i sistemi di ventilazione dolce. Siccome nelle finestre il punto debole è il telaio, l’introduzione di requisiti più severi in riferimento ai bassi valori U e g hanno spesso portato all’impiego di vetri tripli o quadrupli, talvolta con l’aggiunta di controfinestre e vetrate chiuse a doppia pelle, del tipo Closed Cavity Façade (CCF). La tecnologia del vetro ha fatto passi da gigante in questo ambito, rendendo possibile la produzione di vetrate di maggiori dimensioni. Contemporaneamente al buon auspicio del risparmio energetico, si richiedono però anche maggiore comfort termico (più luce diurna e più vista, la garanzia di una temperatura costante di 22°C in inverno e di 26°C in estate, nessuna caduta di aria fredda dalle superfici vetrate ecc.).

Di conseguenza, è cambiata anche l’espressione architettonica: sono cresciuti i formati delle vetrate nelle facciate continue (curtain wall). In linea con le prescrizioni sulla ventilazione dolce si impiegano per lo più vetrate di grandi dimensioni con poche ante apribili. Per quanto concerne l’aspetto esteriore le vetrate multiple conferiscono ermeticità alle superfici trasparenti, riducendo la visibilità dall’esterno, con una predominanza di effetti specchiati. L’industria dei materiali isolanti non tiene però il passo con questa evoluzione, tanto che gli spessori isolanti, posti dietro le componenti opache dell’involucro, sono cresciuti di oltre i 20 cm, facendo apparire l’edificio come avvolto in una sorta di «maglione invernale».

2. Ad una «Podiumdiskussion» tenutasi nel corso dell’ultima edizione della Swissbau, qualcuno dei partecipanti sosteneva che tra i fenomeni evolutivi negativi ai quali stiamo assistendo, ci sarebbe l’abuso del ricorso alle facciate interamente vetrate, indifferenti e uguali tra loro. Gli edifici realizzati in questo modo e ripetuti ovunque nel mondo, sarebbero poco a poco responsabili della perdita di identità e specificità dei luoghi. Condivide questa tesi? O come la declinerebbe? Le pare invece che siano nate nuove specificità locali negli ultimi anni?

Vista la concentrazione demografica attorno alle metropoli, si assiste in tutto il mondo a un’enorme densificazione che contempla, tra le altre cose, anche la costruzione di edifici multipiano. Il paradigma della «parete permeabile», introdotto dal Movimento Moderno,2 e la necessità di accorciare le tempistiche di realizzazione hanno spinto a un grado elevato di prefabbricazione, facilitato soprattutto dall’impiego delle vetrate. Le imprese edili internazionali costruiscono gli edifici in vetro con mezzi identici, a prescindere dal luogo o dal clima. È ormai andata perduta quella correlazione che legava un tempo gli edifici e le costruzioni alle tradizioni e alle condizioni di produzione locali. 

A questo proposito occorre fare una distinzione tra la gran moltitudine di edifici costruiti in tutto il mondo e quelle che sono invece le architetture ben riflettute e pensate (una parte infinitamente piccola al confronto), realizzate spesso con soluzioni che tengono conto delle peculiarità locali. Al riguardo bisogna dire che finora la Svizzera rappresenta certamente una nicchia privilegiata, dove poter concepire e realizzare soluzioni particolari a costi sostenibili.

3. È una tipizzazione grossolana ma la concezione di una facciata può, in fondo, contare su un numero relativamente ristretto di tipi, ovvero:

  • la facciata interamente vetrata.
  • la facciata a «cappotto», o isolata esternamente, con l’aggiunta di sottili rivestimenti applicati direttamente allo strato isolante (intonaco, tessere in mosaico, in qualche caso elementi più consistenti come mattoni o pietre)
  • la facciata ventilata, che tra lo strato isolante e lo strato «visibile» (più o meno consistente o pesante, che potrebbe arrivare ad essere anche un collettore di energia) prevede una camera d’aria.
  • la facciata isolata internamente rispetto allo strato portante. Cioè una facciata che prevede che l’appoggio delle solette avvenga con giunti speciali in grado di evitare il ponte termico (Tipo «Shöckdorne»), oppure che l’isolamento venga risvoltato per qualche metro all’interno, sopra e sotto la soletta. Questa costruzione consente di mostrare e rendere visibile all’esterno lo strato portante normalmente in beton faccia a vista.
  • la facciata sandwich, ad elementi prefabbricati, sia in legno sia di elementi pesanti in beton.
  • Il beton isolante

Le sembra che l’elenco vada ampliato? Tra queste varianti (sempre che non ne voglia aggiungere qualcun’altra mancante) si è fatto un’idea precisa dei vantaggi, del potenziale economico, della pertinenza architettonica, culturale o espressiva di ciascuna di esse? Ovvero nella sua prassi professionale che ruolo gioca ciascuna di queste diverse possibilità? Ce le potrebbe commentare o criticare dal suo punto di vista?

A nostro modo di vedere, la suddivisione in singole tipologie di costruzione presuppone un principio importante: quando parliamo di involucro dobbiamo porci una domanda architettonica di fondo, ovvero chiederci quale sia la relazione che intercorre tra lo spazio interno e lo spazio esterno, e ciò che sta nel mezzo. Ecco perché la soluzione può essere rappresentata dallo spessore di una parete, ma anche da quello strato o spazio intermedio – cosiddetto Raumschicht (oggi non più in uso, nella maggior parte dei casi)3 – che, secondo il parere di Richard Sennett, può sfociare in una cosiddetta «città porosa». 

Vorremmo spiegare e commentare le varianti menzionate partendo da tre esempi di opere di nostra progettazione. Per noi è di centrale importanza il fatto che la tecnica costruttiva scelta poggi su un tema architettonico, e non tanto che si inventi una nuova variante. Ecco perché, per scrupolo di completezza, bisognerebbe aggiungere anche la variante della parete esterna autoportante, che mostra una vera e propria funzionalità strutturale e permette di ridurre i ponti termici, fungendo anche, a determinate condizioni, da rinforzo antisismico.  

Oltre alla possibilità di costruire un edificio interamente di vetro, in tutte le varianti è contemplato il rapporto tra superfici trasparenti e opache dell’involucro, un rapporto che può assumere tutti i livelli intermedi tra struttura a griglia e parete traforata. Negli esempi di opere che presentiamo qui di seguito questo rapporto svolge un ruolo cruciale.

Casa Giuliani a St. Moritz si ispira ai temi della tipica casa engadinese di stampo tradizionale e al museo Segantini, costruito da Nicolaus Hartmann nel 1908 e ubicato poco distante. Per rivestire la facciata della casa si è scelta l’ardesia, un materiale solitamente utilizzato in loco per realizzare i tetti. La scelta di impiegare l’ardesia per rivestire l’intera superficie esterna conferisce all’edificio un’espressione corporea, malgrado il rivestimento continuo. La superficie del tetto ripiegata verso l’interno evoca la forma di una civetta appollaiata su un ramo in un bosco di larici. Le finestre sono scavate nella pelle dell’edificio a una profondità massima e, benché con un significato diverso, ricordano le finestre incavate, a imbuto, tipiche dello stile engadinese. Si aprono in tutta la loro ampiezza verso il lato panoramico, assottigliando le parti chiuse fino al limite della struttura. La profondità delle finestre non è più dovuta allo spesso muro esterno portante, bensì alle attuali prescrizioni energetiche, anche se, di primo acchito, dall’esterno l’effetto è identico. Le finestre, incavate e con imbotte di forma conica, sono realizzate in pietra artificiale e colorate in pasta. Sul lato panoramico, esse avvolgono l’edificio inglobando anche gli angoli, il che, da un punto di vista statico, è possibile solo grazie alla struttura portante in calcestruzzo. Le finestre, amplissime e incorniciate da un controtelaio in larice spazzolato, sono incastonate nella parte interna della parete in beton, come una serie di fotografie. Anche qui, come nel museo dedicato al pittore Giovanni Segantini, le finestre sono rivolte verso la montagna Schafsberg. I paesaggi aperti che si presentano ai nostri occhi ricordano i dipinti del grande artista grigionese. Le finestre ad angolo creano un’immagine plastica del paesaggio, facendoci sentire parte integrante di ciò che vediamo. Grazie all’accorgimento delle finestre a imbuto, dotate di forma conica su tutti i lati, e alla scelta di omettere l’architrave, i locali sono inondati di luce diurna, e il paesaggio sembra quasi «incollato» alla finestra. In ragione del clima alpino che regna a St. Moritz è stato possibile rinunciare, sotto il profilo della fisica dell’edificio, a una protezione solare esterna. Come schermatura si è optato per una tenda interna che, pur lasciando filtrare la luce, permette di stemperare un’eventuale illuminazione eccessiva.

L’edificio amministrativo Wüst und Wüst, a Küsnacht, è ubicato nelle immediate vicinanze del Lago di Zurigo, sulla Seestrasse, e si incastona tra una fila di villette. La forma dell’edificio si inserisce bene nel paesaggio lacustre: ricorda un fungo o un albero. Il basamento è ridotto all’essenziale come fosse un tronco. L’opera diventa così una sorta di «anti villa» dal carattere estroverso. Il «gambo del fungo» è rivestito in travertino, da qui, cresce in verticale una moltitudine di ampie finestre dal telaio anodizzato, color oro. Le finestre impilate avvolgono tutto l’edificio, anche il tetto, in modo tridimensionale, creando una visione sfaccettata di spazi esterni senza cornice che ricordano i lavori di Sol LeWitt. Questa squisita e sapiente materializzazione esprime bene l’identità di un’azienda che si occupa dell’intermediazione di prestigiose case di proprietà. I telai sono concepiti in modo da racchiudere tutti gli elementi tecnici, come il davanzale, le guide di scorrimento, i pluviali, il parafulmine e le schermature solari in tessuto. Ne emerge una costruzione astratta, schietta, senza fronzoli, circondata da un’imponente cornice che contorna un mosaico di tasselli trasparenti. Con l’addizione di una cornice all’altra, lo spessore raddoppia e tale misura corrisponde, orizzontalmente, alla parte portante in calcestruzzo (spessore solaio - architrave - parapetto e verticalmente a una serie di pilastri che si alternano a ogni piano in modo sfalsato. Dall’interno la parete in calcestruzzo a vista vanta vaste aperture  che consentono una vista completa e totale sui dintorni e sul lago.

L’Hilti Innovationszentrum, a Schaan, si trova proprio ai piedi di una catena montuosa e ne mette in risalto l’imponenza. L’edificio ha un’impronta tutta orizzontale e giace, con i suoi parapetti e le finestre a nastro, in primo piano rispetto all’edificio verticale che ospita gli uffici amministrativi. Di giorno, l’edificio, con i parapetti scuri in pietra artificiale colorata e le finestre, anch’esse scure, sembra un massiccio bassorilievo allungato; mentre con il calar della sera le finestre si illuminano permettendo allo sguardo di vagare libero alla scoperta dell’immensa profondità degli spazi interni. I nastri vetrati, di dimensione leggermente diversa, in base all’altezza dei locali e delle solette, come pure dei parapetti e degli spazi tecnico-impiantistici, conferiscono all’edificio un ritmo sottile. All’interno, le finestre a nastro dei piani superiori sono espressione del paesaggio flessibile e trasparente dato dagli uffici a spazi aperti e offrono una visione panoramica grandiosa e quasi infinita sull’antistante catena montuosa. La facciata continua è composta da elementi CCF standardizzati, in linea con tutti i requisiti tecnici, e da elementi a forma di U, in pietra artificiale, profondi 45 cm, che donano all’edificio la plasticità desiderata.

I tre esempi riportati forniscono tutti un’interpretazione delle peculiarità specifiche del contesto, rafforzando il legame che intercorre tra gli edifici e il luogo in cui sorgono. Nel contempo, gli involucri degli edifici sono estrapolati dall’idea tematica del progetto, come le finestre engadinesi tradizionali che si allargano a imbuto nella Casa Giuliani, oppure le finestre impilate nell’edificio amministrativo Wüst und Wüst o ancora le finestre a nastro dell’Hilti Innovationszentrum. Si creano così relazioni specifiche tra superfici trasparenti e opache, si mettono in rilievo gli spazi esterni e interni e si cercano i materiali appropriati per realizzare le superfici opache, le finestre e i sistemi di ombreggiamento.

4. In che modo nella composizione di una facciata o più in generale nella definizione del limite che separa il dentro dal fuori, si riesce ancora a istituire un legame con la tradizione storica o, se vogliamo, con gli esempi di alcuni maestri del passato? 

Per spiegare meglio il tema sul quale le chiediamo una riflessione, prendiamo un elemento architettonico specifico, ad esempio il «marcapiano» o la griglia strutturale. Negli edifici degli anni Cinquanta ma anche precedenti (pensiamo ad esempio al municipio di Göteborg di E.G.Asplund) questo elemento segnava in facciata la presenza della soletta «portante», separata dagli elementi di tamponamento «portati». Un riferimento contemporaneo a questa immagine dovrebbe realizzarsi necessariamente in modo costruttivamente diverso. 

E dunque, è ancora possibile, nel concepire facciate, un riferimento alla storia, oppure le nuove necessità costruttive devono farci rinunciare ai tentativi di istituire analogie con il passato?

Nella storia dell’architettura, la struttura portante e la sua rappresentazione hanno sempre avuto un ruolo di primo piano.4 Da cent’anni a questa parte, con l’affermarsi del cemento armato e del sistema a solai e pilastri, gli involucri esterni si sono liberati della loro funzione portante, ciò ha condotto all’idea di «facciata libera» proposta da Le Corbusier o al «curtain wall» di Mies van der Rohe. Ora la sostenibilità impone compattezza e flessibilità di utilizzo (il concetto di «Bigness», formulato da Koolhaas),5 il che rende ridondante anche la necessità di esprimere la specifica funzione verso l’esterno. Ma che cosa vogliamo ancora poter dire con l’involucro, con quell’ultima pelle che riveste l’edificio? Ora, come in passato, ci si deve confrontare con due estremi diametralmente opposti: da un lato la possibilità di una pelle continua e poco profonda; dall’altro l’anelito di una tettonica rielaborata, a bassorilievo. Nel contempo è chiaro che, per motivi energetici, raramente è possibile una rappresentazione diretta e continua della struttura primaria. Il massiccio strato protettivo più esterno diventa quindi una forma artistica, perdendo la sua funzione di nucleo strutturale. Esso può essere una traslazione della struttura interna, esprimere una logica tettonica propria della facciata oppure, a prescindere dall’esterno e dall’interno, creare un’immagine desiderata.

Siamo dell’idea che esprimere la struttura portante attraverso una forma artistica abbia ancora un suo perché, il che si ricollega, in senso figurato, alla storia dell’architettura. La struttura portante deve però essere reinterpretata, da un punto di vista architettonico e costruttivo. 

5. I sistemi di facciata sviluppati negli ultimi anni sono secondo lei esclusivamente soluzioni «tecniche» per conciliare architettura e requisiti di legge (termici/acustici -di comfort) o stanno creando una nuova architettura? A metà Novecento si è passati dalle facciate rivestite a quelle in calcestruzzo «faccia-vista», ritiene che ci sarà una nuova proposta architettonica che creerà una nuova «scuola» dell’architettura?

Sin dalla crisi petrolifera è aumentata la grande varietà tecnica dei sistemi di facciata, come ben illustrato al punto 3. Resta tuttavia discutibile se si sia già trovata l’adeguata espressione architettonica per i vari tipi di costruzione. La facciata è influenzata da immagini che giungono dall’esterno, come nel caso della Premier Tower di Melbourne, opera dello studio di architettura Elenberg Fraser e che si ispira al corpo sinuoso della cantante Beyoncé Knowles. Questa tendenza, diffusa ormai su scala internazionale, non tematizza la logica architettonica interna della costruzione. Ed è sulla scia di questa tendenza che lo spettro di soluzioni possibili resta tanto libero quanto opinabile: oggi ad esempio un involucro intonacato, che di per se stesso appare massiccio e omogeneo, può essere anche ventilato, e ciò senza il minimo problema, né da un punto di vista costruttivo né sotto il profilo della fisica della costruzione. Solo in rari casi (e se sia davvero sensato, resta discutibile) si è sviluppata un’espressione architettonica per la facciata ventilata. 

Va ricordata un’eccezione degna di lode, in riferimento al legame indissolubile tra l’architettura e la costruzione, ovvero il corso tenuto da Hans Kollhoff negli anni 1993-1997 al Politecnico federale di Zurigo, dal titolo Experimentelles Entwerfen mit Industrieprodukten (progettare in modo sperimentale con i prodotti industriali). Durante le lezioni era possibile esercitarsi nel trovare soluzioni architettoniche esemplari in risposta alle domande tecniche, con il supporto dell’industria edilizia. Una ricerca architettonica in tal senso, vertente sull’espressione della costruzione, potrebbe arricchire molto la prassi orientata alla tecnica.

La tendenza alle facciate in beton a vista scaturisce dal desiderio di mettere a confronto la fine stratigrafia dell’involucro edilizio isolato esternamente, oggi così diffusa e altrettanto complessa, dall’aspetto massiccio ma che risuona cavo, con una costruzione arcaica, robusta e possibilmente vera. Parallelamente, come facciata per lo meno autoportante, essa esprime una funzionalità strutturale evidente e attendibile. Parlare qui di una nuova scuola sarebbe tuttavia prematuro. Solo quando si rivaluteranno nuovamente la durata di vita e il consumo di energia grigia, una facciata massiccia, autoportante e imponente potrà anche avere un futuro sensato (cfr. anche risposta alla domanda 6).

6. Come giudica la spinta più tecnologica verso le facciate «attive» in grado di produrre energia? È una moda passeggera o ci sono i presupposti per rendere l’integrazione dei sistemi solari una soluzione di massa, accettabile dal progettista e adattabile alle diverse soluzioni?

In linea di principio bisogna distinguere tra due approcci di fondo, ovvero decidere se una città debba essere prevalentemente di vetro o di pietra. C’è una grande divergenza di opinioni in relazione alla questione se una facciata si presti realmente allo sfruttamento dell’energia solare (e ciò in considerazione delle sue dimensioni, del suo orientamento e della sua verticalità). Una facciata attiva è di vetro e sottile, ma i prodotti attuali non sono ancora maturi da un punto di vista strutturale. Ecco perché, a nostro modo di vedere, il tetto resta, per la sua stessa forma, la superficie più efficace e adeguata per l’integrazione dei pannelli fotovoltaici. 

7. Le normative sul fabbisogno energetico stanno tecnicizzando notevolmente il processo di progettazione della facciata; le pare che il mondo dei progettisti sia assente dalla discussione, e dunque che si stia andando verso l’iper-specializzazione dei compiti nell’edilizia, oppure l’architetto possiede realmente ancora tutte le leve di progetto?

A suo giudizio gli architetti si stanno svincolando dallo studio di nuove soluzioni di facciata demandando il compito a specialisti, produttori di sistemi, fisici della costruzione? Se sì, secondo lei, perché?

Attorno alla discussione sulle facciate ruota un gran numero di convegni e simposi specialistici, in occasione dei quali la parola è data soprattutto agli esperti del settore. Ciononostante, anche l’architetto, come generalista, dovrebbe avere in mano le redini della questione. Una soluzione meramente tecnica, come somma di tutte le discipline specialistiche, ma senza un approccio architettonico, non promette grandi risultati. I diversi specialisti dovrebbero essere coinvolti tempestivamente nel processo di progettazione, nell’ottica dell’interdisciplinarità. Per poter ampliare il discorso, un ciclo di studi in architettura dovrebbe dunque integrare maggiormente gli aspetti legati alla costruzione. Solo condividendo le competenze è possibile sviluppare nuovamente gli immanenti temi dell’architettura. 

8. Le nuove tecnologie di involucro sono spesso ritenute «non realmente sostenibili» (a causa della quantità e qualità del materiale utilizzato e dell’energia grigia in esso contenuta – non sempre in linea con l’obiettivo della riduzione degli impatti energetici delle nuove costruzioni). Ritiene siano possibili dei miglioramenti in questo ambito in termini legislativi, normativi, tecnologici?

Bisogna assolutamente analizzare con spirito critico la definizione e le disposizioni relative alla durata di vita stabilita per i materiali e le costruzioni, spostando in modo preponderante l’ottica di ciò che è realmente sostenibile.6 Nel contempo è di centrale importanza considerare l’edificio come organismo complessivo e ottimizzare l’interazione simultanea tra involucro e un’impiantistica ridotta (per es. ventilazione naturale). Inoltre sarebbe anche opportuno, nello sviluppo di un intero «sistema-edificio» da ottimizzare, e che lascia consapevolmente spazio a valutazioni e libertà, non focalizzarsi solo e soltanto su un’unica parte dell’edificio.

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