Il mu­ro neu­tra­liz­zan­te di Le Cor­bu­si­er

L'involucro degli edifici e il territorio

«L’ingresso del freddo può togliere in vicinanza dei vetri il comfort necessario. A ostacolo tecnico, risposta tecnica: basta raddoppiare la superficie vetrata che costituisce la facciata, con una seconda vetrata situata a 5 o 10 cm dalla prima e far circolare in questa intercapedine una corrente d’aria calda non respirabile e prodotta in un piccolo impianto termico. È quello che ho chiamato “muro neutralizzante”». Le Corbusier, 1933

Publikationsdatum
13-10-2016
Revision
13-10-2016

Se c’è un elemento che con certezza distingue l’architettura dei nostri giorni dall’architettura della modernità, è l’attenzione – e spesso l’ossessione – per l’involucro dell’edificio. Sull’involucro si gioca gran parte della capacità espressiva dell’architettura nel paesaggio urbano, e nel contempo l’involucro viene interpretato come l’elemento decisivo per soddisfare i requisiti che consentano di definire l’abitazione energeticamente sostenibile. 

È chiaro che negli anni Venti e Trenta i temi della ricerca erano altri. Era la conquista di un nuovo modo di abitare, attraverso lo sfondamento delle pesanti murature dell’edilizia tradizionale e storicista, per farvi penetrare il sole, adottando il cemento armato per realizzare grandi luci da tamponare con il vetro. Per costruire spazi nuovi, si rivestivano di intonaco bianco muri di mattoni e pilastri e travi di cemento armato, mentre la ventilazione, garantita dalla scarsa tenuta dei serramenti, evitava la formazione delle condense provocate dai ponti termici. I disegni di Le Corbusier rivelano spessori degli involucri murari che oggi sarebbero improponibili, e che favorivano una dispersione termica elevata, rispetto a quella degli edifici tradizionali i cui muri massicci offrivano un’inerzia significativa. 

Eppure la ricerca tecnica sul clima degli ambienti abitati era intensa. Il «muro neutralizzante» di Le Corbusier o i radiatori a tubo disposti da Mies van der Rohe alla base delle grandi vetrate a scomparsa di casa Tugendhat erano esperimenti molto avanzati, che tuttavia non interessavano l’involucro murario vero e proprio. Il costo dell’energia – che sarebbe diventato nel mondo occidentale una grande questione sociale solo dopo la crisi petrolifera del 1979 – non era un problema. 

Oggi la capacità dell’involucro di isolare il clima interno dell’abitazione da quello esterno è uno dei temi della cultura della costruzione più impegnata. Un architetto e un ingegnere fisico della costruzione hanno curato insieme questo numero di Archi: ci interessa sottolinearlo, per rimarcare la nostra convinzione che il dialogo interdisciplinare sia oggi una risorsa fondamentale del mestiere di costruttori.

Più volte abbiamo raccontato che un territorio urbanizzato in modo disordinato e diffuso – come lo sono diverse aree di fondovalle ticinesi – da una molteplicità di piccole case, è comunque un disastro anche se tutte le piccole case sono energeticamente sostenibili. Un disastro ambientale ed energetico che rivela come la cultura della costruzione sia debole e subalterna a un mercato immobiliare di rapina, nonostante che appaia come tecnicamente solida, perché capace di progettare un’abitazione dagli elevati requisiti energetici. Perché il più importante strumento di sostenibilità è la gestione del territorio. Perché lo spreco di risorse costituito dai trasporti delle persone e delle merci conseguente alla abnorme e costosa estensione delle reti urbanizzative è superiore a quello dei costi di riscaldamento delle abitazioni. Il ruolo sociale dell’architetto, il rilievo che le sue conoscenze hanno nelle decisioni di governo, dai livelli più locali a quelli regionali, si sta riducendo, perché risulta difficile tenere insieme – con la medesima tensione intellettuale – le scale a cui il mestiere deve dedicarsi, da quella del dettaglio edilizio a quella della progettazione urbanistica.

«L’architetto è il primo Bauphysiker», ha scritto il fisico della costruzione Sergio Tami. Sono i concetti generali del progetto che devono essere già fondati a tutte le scale sulla cultura della sostenibilità. E il dialogo e lo scambio con le conoscenze specialistiche deve fin dall’inizio alimentare il progetto. Altrimenti, se l’architetto perde la capacità di regia delle diverse conoscenze specialistiche, diventa anch’esso uno specialista – dell’immagine, dell’apparenza – e il progetto architettonico perde centralità. 

Descrivendo la sezione di Ville Savoye, in Précisions, con la luce che penetra in ogni parte della casa e la circolazione che «crea delle impressioni architettoniche di una diversità che sconcerta ogni visitatore non avvezzo alle libertà architettoniche consentite dalle tecniche moderne», Le Corbusier conclude con il motto «Poesia, lirismo, portati dalla tecnica». 

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