Edi­fi­ci che can­ta­no e altri spa­zi so­n­o­ri

Il rapporto tra musica e architettura

Nel suo godibilissimo pamphlet, scritto nello stile dei dialoghi platonici, intitolato Eupalino o l’architetto e pubblicato nel 1923, Paul Valéry riassume assai efficacemente l’articolata potenzialità del rapporto tra musica e architettura.

Publikationsdatum
09-04-2018
Revision
09-04-2018
Roberto Favaro
Musicologo, docente di Spazio sonoro presso l’Accademia di architettura di Mendrisio

Discorrendo infatti con Socrate, Fedro riporta l’interrogativo postogli a suo tempo dall’architetto Eupalino da Megara: «Dimmi, poiché sei così sensibile agli effetti dell’architettura, non hai osservato, camminando nella città, come tra gli edifici che la popolano taluni siano muti, ed altri parlino, mentre altri ancora, che son più rari, cantano?».1 Non sappiamo se in piena consapevolezza o se per spontanea, involontaria proliferazione di senso, di fatto però la domanda dirama una serie di prospettive d’indagine che in sé promuovono l’aspetto poliforme del tema musica-architettura e insieme suggeriscono la necessità oggi di intraprendere proprio da questo aperto punto d’osservazione qualsiasi discorso sullo spazio sonoro e dunque tanto più sull’Auditorium inteso come edificio dedicato alla (o suscitato dalla) musica. L’edificio cantante si pone insomma come meravigliosa sintesi, non solo o non tanto metaforica, dell’idea di spazio sonoro come realizzazione più completa e soddisfacente del rapporto musica-architettura. Ma in quale senso, allora, va inteso e immaginato un edificio che, per quanto raro, canta? Si individuano e suggeriscono qui almeno tre possibili risposte, tutte tra loro intrecciate e riconducibili a tre diversi modi di intendere l’idea di spazio sonoro – cioè di spazio che in qualche modo suona – e in senso più ampio il vivissimo rapporto tra musica e architettura.

Musica pietrificata

In una prima e più immediata istanza, l’edificio – ovvero, allargando, qualsiasi esito del progetto architettonico o della pianificazione organizzativa dello spazio bi-tridimensionale – sembra suggerire a Paul Valéry, attraverso le interrogazioni disvelatrici di Eupalino, l’idea di una «musicalità» visiva del manufatto manifestata attraverso una serie di strategie compositive dello spazio volumetrico e delle superfici bidimensionali delle facciate che rinviano, mutatis mutandis, a una sorta di scrittura musicale, come una specie di smisurata partitura edile in cui ritmo, armonia, contrappunto, vuoto, linea diacronica (skyline, decori, elementi strutturali), stratificazione verticale ecc., trovano la loro traduzione plastica in un edificio per così dire «solfeggiabile».

Ragionando su questa prima possibile interpretazione dell’edificio inteso come spazio in varia maniera sonoro o sonante, va suggerito che proprio su questa linea di riflessione esiste una ricchissima tradizione di pensiero e di speculazione, a cavallo tra filosofia, arte e scienza, che potremmo riassumere nel formidabile assunto di Goethe secondo il quale l’architettura si definisce come «musica pietrificata».2 Appare già da qui evidente che se il tema si sintetizza nell’idea fondamentale di una musica per gli occhi, è altresì chiaro che possibili declinazioni di questa cantabilità visiva dell’edificio si traducono da un lato in diverse opzioni di «musicalizzazione» del piano visivo-spaziale, dall’altro in un non irrilevante numero di scambi lessicali o di rimandi metaforici. Sul primo di questi due versanti di «musica pietrificata», vale la pena di indicare almeno alcune tra le molte eventualità praticabili. Certamente le questioni del numero e della proporzione armonica rappresentano un nucleo di concreto tentativo di rispecchiamento del linguaggio musicale nei dispositivi di organizzazione plastica, visiva e volumetrica.3 Ma se allarghiamo l’inquadratura fino ad accogliere anche ambiti più estesi o in certa misura attigui a quello dell’architettura in senso stretto, come quelli della scultura o delle arti visive in genere, o comunque afferenti alla dimensione precipua della spazialità, troviamo stimolantissimi riscontri di una musicalizzazione destinata all’occhio. Si pensi ai numerosi quadri di Paul Klee ispirati, anche nel titolo (per esempio Fuga in rosso, del 1921, o Bianco polifonicamente incorniciato, del 1930) al tema musicale; o si pensi alle sculture di Fausto Melotti, ai suoi Contrappunti plastici degli anni Settanta, o alle sperimentazioni di Luigi Veronesi con le sue trasposizioni cromatiche e geometriche di veri e propri brani musicali (per esempio quelli di Johann Sebastian Bach).4

Lungo questa via andrebbero allora indicati e compresi, in quanto tipi particolari di edifici cantanti, tutti quei manufatti la cui forma esteriore rinvia in qualche modo all’evocazione di un’immagine sonora. Se si vuole, persino un «divertente» edificio come Ginger & Fred realizzato da Frank O. Gehry a Praga nel 1995, può essere incluso tra gli esempi plausibili di una possibile «musica pietrificata»: i due corpi avvinghiati in quell’abbraccio suggerito dalla forma contorta dello stabile non suonano di per sé (ovvero non rimandano direttamente l’occhio a una sinestetica immagine musicale) ma in quanto pietrificazione del gesto danzante in quell’istantanea e perenne immobilità, suggeriscono la presenza implicita di una qualche musica come causa e stimolo motorio del movimento stesso. Ricordiamo poi, per risalire alla condizione forse più esplicita di un’architettura pensata come traslazione dei criteri organizzativi del tempo sonoro nella segmentazione volumetrica e spaziale del manufatto, l’esempio conclamato ed esplicitamente dichiarato del Convento di Sainte-Marie de-la-Tourette a Eveux-sur-Arbresle, progettato da Le Corbusier a partire dal 1952 e realizzato nel 1957 in cui i pans de verre progettati insieme a Iannis Xenakis seguono un’organizzazione proporzionale derivata dal Modulor, e di conseguenza dal ritmo musicale.5

Ma proprio per la stretta reciprocità di scambio lessicale e linguistico, non possiamo tralasciare qui di accennare, almeno brevemente, anche all’eventualità capovolta, quella di un costrutto musicale che per diverse ragioni si costituisce come edificio cantante, ovvero come spazio sonoro generato da un intimo, ambivalente e continuo travaso del visivo nel sonoro e viceversa. L’esempio che domina questa prospettiva particolare è certamente quello, assai noto, della musica composta da Guillaume Dufay nel 1436 per l’inaugurazione della splendida cupola di Filippo Brunelleschi per Santa Maria del Fiore a Firenze. Il mottetto Nuper Rosarum Flores, strutturato polifonicamente in quattro linee sovrapposte (Tenor I, Tenor II, Motetus, Triplum) rinvia con buonissima approssimazione, per ciò che riguarda la quantificazione metrico-temporale delle quattro parti in cui è suddiviso (rispettivamente 168, 112, 56 e 84 pulsazioni che corrispondono al rapporto 6:4:2:3), alla misura delle «braccia» della chiesa fiorentina (navata 168, transetto 112, abside 56, cupola 84; dunque, di nuovo, il rapporto 6:4:2:3).

Vorrei dire ancora, non del tutto a margine di questo discorso, che esiste un ulteriore terreno di avvicinamento tra musica e architettura sul particolare crinale delle rifrazioni tra visivo e uditivo rilevabile nell’ambito della traduzione segnica e notazionale del progetto, sia esso destinato all’edificazione di un manufatto spaziale o all’organizzazione acustica e intangibile della composizione sonora. La partitura, nelle sue diverse e progressive vie di perfezionamento tecnologico, mostra attraverso la notazione e i differenti simboli, parole, numeri adottati, la capacità del suono di tradursi in segno e da qui di rendersi «percepibile» al lettore nel modo della fantasia grazie alla capacità dell’occhio di decodificare e dunque, oltre che di vedere, anche di «ascoltare».

Qualsiasi spartito o scrittura musicale (perfino un romanzo)6 è dunque uno spazio sonoro, è in sé una forma speciale di edificio (o di progetto visivo) che «canta» per l’occhio che sa ascoltare leggendo. Anche qui, alcune possibili traiettorie. In primo luogo quella della Musik zum lesen, della «musica da leggere», riconsocibile in vari ambiti del tracciato storico musicale ma con particolare evidenza, a titolo esemplificativo, da un lato nell’opera di Johann Sebastian Bach e in quelle sue composizioni «speculative» (L’Arte della Fuga su tutte) votate più alla lettura teoretico-strutturalista (zum lesen, appunto) che non alla concreta, udibile esecuzione, dall’altro lato in quelle esperienze della musica novecentesca determinate a praticare proprio un punto di contatto, all’insegna della sperimentazione, tra opera d’arte sonora e opera d’arte visiva: tra i tanti esempi, certamente i lavori e le partiture grafiche di autori come John Cage, Earle Brown (esemplare il suo December 1952, del 1954), Sylvano Bussotti (tra gli altri i pittoricissimi Piano pieces for David Tudor IV del 1959, Rara Requiem del 1969, Autotono del 1977, per esempio), fino all’esempio perfettamente calzante di MO-NO. Musik zum lesen del 1969 di Dieter Schnebel, per il quale «la lettura del libro vuol far nascere della musica nella testa del lettore», scrive il compositore a introduzione del brano, «così che egli nella solitudine della lettura – mono – diventa esecutore della musica, fa musica per se stesso. In parte i testi descrivono suoni che vanno soltanto immaginati, che sono quindi prodotti dal lettore in modo immaginario. […] In questo modo il libro vorrebbe condurre l’ascoltatore che legge (il lettore che ascolta) alla musica dei suoni che ci circonda, ma anche metterlo sulle tracce di quei suoni immaginari che si costruiscono dentro di noi in maniera costante, vale a dire che si sviluppano a partire da suoni sia reali che irreali».7

Se si vuole poi riportare la questione della visività del progetto musicale a una più riconoscibile pertinenza architettonica, basti almeno ricordare la nota illustrazione di Robert Fludd, il Templum musicae contenuto nel suo monumentale Utriusque Cosmi Historia (Tractatus Secundi, Pars II) apparso tra il 1617 e il 1621, in cui la musica viene rappresentata sotto forma di edificio. Ancora, per concludere su questo modo di intendere lo spazio sonoro o l’edificio che canta e riportando il punto di osservazione dalla parte dell’architettura, potrà essere di una certa utilità richiamare quanto dice Frank Lloyd Wright a proposito del disegno della sua musicalissima Fallingwater (alla quale dovremo poi tornare). Rivolgendosi a un collaboratore, infatti, l’architetto americano dice: «Penso che tu possa sentire la cascata quando guardi il progetto».8

Lo spazio della musica, la musica nello spazio

L’idea di un edificio sonante si dirama nelle ulteriori (tra le numerose possibili) due accezioni di spazio sonoro che si suggerisce qui di affrontare. Parliamo innanzitutto dell’edificio che canta per antonomasia, quello cioè dedicato per statuto, vocazione e identità funzionale, alla musica. A qualsiasi discorso sull’Auditorium occorre premettere una serie di angolature prospettiche attraverso le quali sviscerare le potenzialità interattive tra spazio e suono al fine di individuare, sulla base di volta in volta delle esigenze creative ed esecutive o delle prerogative estetiche e compositive, quelle modalità progettuali complessivamente più adatte ed efficaci.

Se per spazio sonoro intendiamo infatti lo spazio della (o per la) musica, e se dunque pensiamo all’edificio valéryano che canta come alla più specifica tipologia costruttiva dedicata al suono, cioè l’Auditorium, dovremo necessariamente considerare la serie di molteplici variabili che si irradiano dalle due questioni più generali del suono nello spazio e dello spazio nel suono, intendendo, con la prima, le diverse possibilità – storiche, estetiche, geo-culturali – di immaginare il processo di diffusione del suono, o della dislocazione delle sue fonti, nello spazio; con la seconda, intimamente legata alla precedente, le modalità – anche qui storiche, estetiche, geo-culturali – di qualificazione, utilizzo, sfruttamento dello spazio inteso come parametro attivo (e non inerte o convenzionale) del prodotto musicale e del pensiero compositivo. In altre parole, alla prima prospettiva corrisponde la domanda non solo su come lo spazio si dispone ad accogliere il suono, ma soprattutto su come il suono viene organizzzato nella sua relazione espansiva e dislocativa; alla seconda appartiene invece la prospettiva su quale ruolo creativo assuma lo spazio nella progettazione e nell’organizzazione compositiva del suono.

Devo aggiungere che dalla verifica di queste due postazioni d’indagine e tanto più nel caso di una loro intima compartecipazione dialettica, emergono alcuni casi esemplari, o se si vuole virtuosi, in cui il rapporto tra musica e architettura si manifesta nella sua più intensa e propositiva evenienza. Sono quei casi – delle vere e proprie officine del cambiamento e dell’invenzione architettonico musicale –, da cui emerge il senso del nuovo oltre che di una fattuale trasformazione identitaria – dell’oggetto architettonico, del costrutto musicale – proiettata verso nuovi orizzonti ideativi, spaziali e sonori. Sono quei casi in cui la musica trova nuove vie creative grazie alla spinta di un determinanto spazio architettonico di accoglienza, o viceversa l’architettura ripensa la propria forma in virtù della sollecitazione di un nuovo pensiero musicale, o infine, come terza e più soddisfacente ipotesi, entrambe trovano nell’intima complicità progettuale strade artistiche (sonore e spaziali) non ancora battute.

Mi limiterò a segnalare, tra i tanti possibili, alcuni di quei casi che nella loro efficacia rappresentativa possono costituire altrettanti modelli o riferimenti per nuove, ulteriori iniziative progettuali. A parte l’esempio del teatro greco (un teatro pervaso dalla musica, come sappiamo) che mostra felicemente alcune delle istanze fin qui elencate e che ancora – con la sua valorizzazione del suono e la stessa origine della forma teatrale «dallo spirito della musica» – si pone come archetipo di tutti i possibili teatri dell’oggi, vale la pena di indicare, tra le tante possibili, la vicenda prettamente compositiva della tradizione musicale ecclesiastica nella Venezia rinascimentale, con la formidabile invenzione, in anticipo di secoli sulle realizzazioni novecentesche, del sound design da parte di quei musicisti (Andrea e Giovanni Gabrieli su tutti) che, valorizzando a fini compositivi e spazializzanti la particolare forma a croce greca della pianta della basilica di San Marco, procedono a una dislocazione parcellizzata e disseminata in diversi punti dell’edificio sacro – grazie alla tecnica dei cosiddetti cori spezzati –, delle fonti acustiche sonanti (voci e strumenti), in quella che a tutti gli effetti risulta infine un’organizzazione quadrifonica dello spazio sonoro, ovvero l’idea modernissima (ecco l’anticipazione del sound design) di manipolare o modellare la percezione dell’ambiente architettonico attraverso uno specifico disegno del suono e del suo movimento spaziale come valore aggiunto ai parametri tradizionali (armonia, melodia, ritmo, timbro, intensità) della composizione musicale.

La forma dell’architettura spinge la musica a inventare una nuova idea di spazio sonoro. Ma da qui, per rimanere ancora a Venezia, vale la pena di osservare l’esempio delle chiese degli Ospedali Grandi, e in particolare della chiesa della Pietà annessa all’omonimo Ospedale, in cui una ricca tradizione esecutiva musicale culminata con il lavoro esemplare di Antonio Vivaldi stimola l’edificio ecclesiastico, ricevendone a sua volta vivissima sollecitazione, a trasformare la propria identità costruttiva (aggiunta e ampliamento delle cantorie, utilizzo di nicchie e lunette sopraelevate) per assecondare le esigenze di spazializzazione del suono promosse dai compositori i quali, a loro volta, trovano nella chiesa così rinnovata la spinta a sperimentare nuove esperienze di suono spazializzato, quadrifonico, asimmetrico, circolare, comunque posizionato in alto e al di sopra rispetto alla postazione d’ascolto occupata tradizionalmente dai fedeli.

E per rimanere ancora a Venezia, come sintesi ed espansione immaginifica dei due casi ora descritti, occorre menzionare uno dei più significativi esperimenti di incontro tra architettura e musica, o meglio tra architetto e compositore, realizzato in occasione della messa in scena nel 1984, presso la chiesa sconsacrata di San Lorenzo, del Prometeo – Tragedia dell’ascolto di Luigi Nono con la celebre «Arca» – o smisurata cassa armonica riaccordabile tramite i numerosi pannelli lignei del rivestimento – progettata da Renzo Piano. Come a San Marco e come nella chiesa della Pietà, il vascello di Piano esalta l’idea di uno spazio sonoro disponibile a una disseminazione variabile e comunque attivissima delle fonti sonore, oltre che a un posizionamento per così dire sferico, avvolgente il pubblico che si trova così coinvolto in un’esperienza percettiva nuovissima, galleggiante al centro di uno smisurato strumento-architettura. Da qui, ma retrodatando di pochi anni, serve ricordare, per la sua allora modernissima vocazione alla geometria variabile (del rapporto suono-pubblico, ma anche delle caratteristiche acustiche dello spazio), la sala di proiezione sonora ad acustica variabile (creata nel 1976) dell’Institut de Recherche et de Coordination Acoustique/Musique (Ircam), presso il Centre Pompidou di Parigi.

Qui si assiste al fascinoso scambio di reciprocità e stimoli estesi all’idea di una forma architettonica camaleontica che modifica se stessa in funzione della musica accolta dentro di sé, ma al tempo stesso di una composizione musicale inedita, spesso commissionata a musicisti residenti i quali configurano il discorso sonoro sfruttando le enormi potenzialità installative e acustiche della sala, anzi, facendo della sala stessa un vero e proprio macro strumento aggiuntivo, a completamento, o a indispensabile motore di valorizzazione artistica e realizzazione pienamente compiuta dell’opera. Infine, a chiudere questa fin troppo rapida e riassuntiva elencazione – e rinviando il lettore ai molti altri casi storici e contemporanei, dal wagneriano Festspielhaus di Bayreuth alle molte soluzioni di sala a geometria variabile degli ultimi decenni – il caso forse più esaltante e, per i tempi storici, più innovativo di interazione virtuosa e reciprocamente sollecitante tra musica e architettura: il celebre Padiglione Philips progettato da Le Corbusier, con l’attiva collaborazione di Iannis Xenakis, per l’Esposizione Universale di Bruxelles del 1958, un manufatto che tra l’altro trova la propria origine formale e compositiva nella trasposizione grafica (dunque in qualche modo notazionale) del glissando di suoni contenuto nell’opera orchestrale Metastasis, dello stesso Xenakis del 1954, ma che soprattutto trova nel Poème électronique (musica sintetica e concreta registrata su nastro magnetico) di Edgar Varèse, proiettato da circa 450 altoparlanti collocati al proprio interno, la straordinaria sintesi di una complicità e simbiosi spettacolare tra musica e architettura.

Un progetto inedito, forse la prima vera installazione sonora di una musica che articola se stessa sulla base del progetto architettonico, o il primo vero progetto di un’architettura che pensa se stessa come corpo sonante, come spazio che si genera e trova forma sulla spinta decisiva della musica che in esso viene fatta abitare. L’esito, anche recettivo dell’ascoltatore, è nuovissimo: i visitatori non solo ascoltano la musica di Varèse provenire da moltissime fonti acustiche secondo una precisa regia di spazializzanione, e non solo associano questi suoni sperimentali alle immagini selezionate da Le Corbusier proiettate sulle superfici del padiglione, e non solo suoni e immagini si integrano con la specialissima conformazione plastica dell’edificio, ma in più partecipano a un’esperienza che stravolge le abituali modalità statiche di percezione del suono ponendosi come recettori mobili che, camminando e attraversando l’ambiente espositivo, penetrano nello spazio sonoro trasformando continuamente e soggettivamente il disegno acustico complessivo.

Klangkorper, corpi sonanti

Da qui si apre l’ultima, ma forse più propositiva delle prospettive suggerite in queste pagine. L’edificio che canta assume ora l’identità, in linea con una visione polisensoriale dell’architettura, della musica e delle arti visive e installative, di un corpo che materialmente suona di una propria voce concretamente udibile. Gli esempi, che sono molteplici e ai quali potremo qui solo accennare, richiedono una breve premessa. Il corpo del manufatto suona, può suonare, per molteplici ragioni tra loro connesse. Suona per l’insieme organico delle sue componenti che, testimoniando dell’inesorabile impermanenza del tempo, modificano la propria apparenza muta con scricchiolii, tonfi, schiocchi, sospiri che, soprattutto nel silenzio notturno, caricano l’edificio o il manufatto di una suggestiva forza espressiva. Suona per i differenti sistemi impiantistici (idraulici, elettrici, meccanici) che generano, sempre nell’impermanenza inconsolabile del tempo, una ricca polifonia di attributi acustici.

Suona come strumento eseguito – nel rapporto tra dentro e fuori – dagli elementi atmosferici, dalla natura che lo accarezza, dall’abitante che ne fa teatro di una propria drammaturgia sonora esistenziale. Suona, prioritariamente, perché ogni cosa (ogni casa), come uno strumento musicale, ha una voce, un suono, un timbro, qualificato musicalmente in base alle qualità di elasticità e risonanza della materia di cui è composta, alle modalità di sollecitazione, allo specifico ambiente di riverberazione all’interno del quale il suono, generato dal corpo vibrante, trova eventuale valorizzazione. Così inteso, l’edificio che canta è giunto ora a costituirsi come vero e proprio strumento musicale le cui esternazioni acustiche accompagnano e avvolgono l’esperienza dell’abitare e dell’ascoltare.

Se pure è vero, come dice John Cage, che in ogni cosa c’è musica, al tempo stesso bisogna riconoscere che in alcuni casi (naturali, architettonici, scultoreo-plastici), questa vocazione «organologica» del manufatto si presenta in modo più fascinosamente eloquente. Sulla linea di una visione polisensoriale dell’architettura, vale la pena di considerare allora il caso di Fallingwater, la casa sulla cascata di Frank Lloyd Wright, come sintesi esemplare di un edificio che nelle esplicite intenzioni dell’architetto sorge per valorizzare al proprio interno (davvero come fosse uno smisurato edificio risonante) il suono perenne e perennemente cangiante dell’acqua del torrente.9 Così come non si può tacere delle intenzioni musicalizzanti del riverbero acquatico in relazione con le trasfigurazione di luce e di umidità dell’aria nella realizzazione delle Terme di Vals di Peter Zumthor (del quale vale anche la pena di ricordare, tra gli altri progetti, il Klangkörper Schweiz, il Padiglione svizzero per l’Expo di Hannover 2000).10 Così, per concludere, come non segnalare il lavoro scultoreo dell’artista sardo Pinuccio Sciola che con le sue Pietre sonore (basalti e calcari magnificamente risonanti) ha determinato una rivoluzionaria trasfigurazione della scultura in strumento musicale e dello strumento musicale in oggetto plastico potentemente evocativo.11

A questa altezza il discorso suggerisce di penetrare più a fondo nelle potenzialità inespresse dei materiali e delle loro eventuali combinazioni e assemblaggi in manufatti costruiti, cosicché l’idea valéryana di un edificio che canta possa sospingere la ricerca musicale e quella architettonica a immaginare progetti nuovi, che disvelino orizzonti sonori ancora sconosciuti, come proposto da Wright con la sua casa armonica, o da Sciola con la sua pietra scavata e tagliata per cavarne fuori la voce inespressa.

Nel Parco naturale di Paneveggio, nel Trentino orientale, alla fine della Val di Fiemme, esiste un bosco, chiamato dei violini, dove da secoli cresce – pressoché unico al mondo – un tipo speciale di abete rosso detto di risonanza che qualcuno un tempo, chissà quando e perché, ha individuato come straordinariamente adatto a realizzare la tavola armonica del violino e assolutamente indispensabile a generarne quella meravigliosa voce che conosciamo. Antonio Stradivari si recava a Paneveggio per scegliere personalmente i legni per i suoi formidabili strumenti. Ancora oggi l’abete rosso di questa foresta è la fonte primaria per la realizzazione dei migliori violini di tutto il mondo. Musica e architettura possono porsi allora l’obiettivo, per il futuro, di cercare altri basalti, altri calcari, altri abeti rossi di risonanza, ovvero nuove pietre, nuove piante, nuovi materiali adatti a inventare nuovi edifici cantanti.

 

Note

  1. Paul Valéry, Eupalino o l’architetto, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1997, p. 19.
  2. Si rinvia, per un completo quadro su questo tema, a Silvia Berselli, Architettura e musica: dalle teorie proporzionali all’innovazione elettronica del Novecento, tesi di laurea, relatore prof. Alessandro De Magistris, Facoltà di Architettura, Politecnico di Milano, AA 2004-2005. Mi permetto inoltre di segnalare, per questo e per i successivi temi, Roberto Favaro, Spazio sonoro. Musica e architettura tra analogie, riflessi, complicità, presentazione di Mario Botta, Marsilio, Venezia 2010; Roberto Favaro, Suono e arte. La musica tra letteratura e arti visive, Marsilio, Venezia 2017.
  3. Così per esempio Leon Battista Alberti: «[…] quei medesimi numeri certo, per i quali avviene che il concento delle voci appare gratissimo ne gli orecchi degli uomini, e sono quelli stessi che empiono anco e gli occhi e lo animo di piacere meraviglioso. Caveremo adunque tutta la regola del finimento da musici, a chi sono perfettissimamente noti questi tali numeri: e da quelle cose oltre di questo, da le quali la natura dimostri di se alcuna cosa degna e onorata», cit. in C. Grayson, L.B.Alberti, Opere volgari, VII, Laterza, Bari 1973, p. 4.
  4. Su questi temi vedi Visioni musicali. Rapporti tra musica e arti visive nel Novecento, a cura di Francesco Tedeschi, Paolo Bolpagni, Vita & Pensiero, Milano 2009.
  5. «La nostra ultima invenzione è di aver installato nel Palazzo dei Ministeri al Campidoglio di Chandigarh e nel Convento di La Tourette a Lione pans de verredetti “musicali”, la più ragionevole soluzione della finestra moderna, condotta sul filo di una regola che ha già regolato da lungo tempo la musica». Le Corbusier, Il Modulor 2, Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1974, p. 320.
  6. Cfr. Roberto Favaro, Musiche da leggere, romanzi da ascoltare. Pagine sonore dalla narrativa italiana del ‘900, Ricordi-Lim, Milano-Lucca 2010.
  7. Dieter Schnebel, MO-NO: Musik zum lesen, DuMont, Köln 1969.
  8. F.L. Wright in una conversazione con Hugh Downs a Taliesin, 1953, National Broadcasting Company, cit. in Donald Hoffmann, Frank Lloyd Wright’s Fallingwater. The House and Its History, Dover Publications, New York 1993, p. 17.
  9. Scrive Wright il 26 dicembre del 1934 ai coniugi Edgar e Liliane Kaufmann, committenti di Fallingwater: «La visita alla cascata nei boschi mi è rimasta impressa e nella mia mente ha preso vagamente forma un’abitazione adatta alla musica del torrente. Quando mi saranno chiari i contorni la vedrete». Frank Lloyd Wright: Letters to Clients, a cura di B. Brooks Pfeiffer, California State University, Fresno 1986, p. 82.
  10. Cfr. Peter Zumthor Therme Vals, Scheidegger & Spiess, Zürich 2007; «Trovo che sia meraviglioso costruire un edificio e far nascere questo edificio dal silenzio. […] Conosco altri posti più rumorosi di questo, dove bisogna fare uno sforzo in più perché uno spazio diventi silenzioso, per riuscire insomma a immaginare, partendo dal silenzio, quali suoni produrrà lo spazio in relazione anche alle sue proporzioni e ai materiali utilizzati. […] Quali suoni emette un edificio quando lo attraversiamo, quando parliamo, quando conversiamo […]. Ci sono edifici che producono suoni meravigliosi, che mi dicono: qui sei protetto, non sei solo». Peter Zumthor, Atmosfere. Ambienti architettonici. Le case che ci circondano, Electa, Milano 2007, pp. 29-31.
  11. Cfr. Roberto Favaro, Suoni e sculture. Le pietre e le sculture sonore di Pinuccio Sciola, Arkadia, Cagliari 2011; Roberto Favaro, La sinfonia delle pietre. Le sculture sonore di Pinuccio Sciola, in Suono e Arte. La musica tra letteratura e arti visive, Marsilio, Venezia 2017.
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