Dia­rio del­l'­ar­chi­tet­to, ot­tobre 2014

Chi ha nascosto i giovani bravi architetti?

Pur se si escludono i nomi da anni già noti e apprezzati, l’architettura in Ticino si qualifica ancora oggi per la sua qualità: ed è grazie al lavoro svolto da una nuova generazione di architetti, quelli che hanno iniziato una decina di anni fa. Anche se il mercato immobiliare è sostanzialmente precluso ai giovani architetti.

Publikationsdatum
08-12-2014
Revision
08-10-2015

Una nuova generazione di architetti

Capaci di elaborare progetti di straordinario (il termine così enfatico è intenzionale) valore grazie a delle qualità e delle innovazioni, rispetto al passato della nostra storia architettonica recente, che vale la pena di brevemente sintetizzare.

Primo, pur se gravati dalla difficile «eredità» costituita dal valore e dall’inevitabile influenza di chi li ha preceduti, sono stati in grado di trovare una propria linea progettuale. Perseguendo ovviamente il proprio modo di fare, ognuno ha elaborato architetture ben lontane dai modelli acquisiti, ma coerenti con modi formali e costruttivi contemporanei, risposte progettuali chiare rispetto alle mutate situazioni e condizioni urbane dettate dall’evoluzione odierna del territorio e rispetto agli imperativi di ordine tecnologico, energetico ed ecologico.

Secondo, questi architetti sono anche riusciti nella difficile impresa di non cadere nel tranello delle facili scorciatoie formali, di non soccombere al marasma delle invenzioni architettoniche che flagellano le riviste di architettura, ma capaci invece di restare coerenti a una linea di rigore, di semplicità, di sintesi – talvolta minimalista – che fa loro onore.

Terzo, questa generazione dimostra, sia nei lavori pubblici guadagnati nei concorsi sia nei lavori privati, di riuscire a mantenere qualità progettuale e qualità costruttiva malgrado il difficile contesto professionale di oggi. Mica semplice, quando si pensa a quanti committenti privati oggi siano «astratti» – delle società anonime – e non delle persone con la loro cultura, personalità, ambizione. Quando si pensa alla velocità e dinamica assunta dal lavoro in ufficio, dettata dai microsecondi di un mail, quando si pensa che con l’avvento dell’impresa generale si divarica sempre più il contatto tra progetto e realizzazione, tra architetto e cantiere. Quando si pensa, aggiungo, alla disistima dell’opinione pubblica per la professione dell’architetto, oggi ritenuta una banda di cementificatori incuranti del paesaggio nostrano.

Baserga e Mozzetti, Durisch e Nolli, Guidotti e Guidotti, Martino Pedrozzi, Felix Wettstein, Lorenzo Felder, Wespi e de Meuron, Tibiletti e associati, Könz e Molo, Bonetti e Bonetti, Stefano Moor, Sandra Giraudi, Luca Gazzaniga, Colombo e Casiraghi, Celoria e Giovannini, Buzzi e Buzzi, Cristiana Guerra, i Tognola, Giovanni Guscetti, Giorgio Guscetti, Canevascini e Corecco, Snozzi e Groisman, Piattini e Meyer, Bardelli e Bardelli sono i primi nomi che mi vengono in mente. Più di venti: se aggiungessi quelli che ho dimenticato e togliessi quelli che forse qualcuno non inserirebbe, beh, venti lo sono di sicuro. È questa la giovane generazione. E le loro opere – magari non tutte dei capolavori, ma comunque di alta qualità – si aggiungono a quelle degli altri venti della «vecchia» generazione. Mi sembra che si possa esserne fieri.

Impietosa radiografia di quello che si costruisce

Ma però. Però incontro un collega romando al Festival di Locarno. Con la faccia di chi non capisce più nulla mi ha posto tre domande: «Che cosa succede in Ticino? perché oggi è il Cantone in Svizzera dove si costruisce peggio? dove è andata a finire quella Scuola ticinese che tanto abbiamo ammirato decenni fa ». E mi mostra sul cellulare fotografie delle aree urbane del Locarnese, dei margini del Piano di Magadino, fuori sulle colline e lungo le rive del lago: dal piccolo schermo emergono scene di un’apocalisse architettonica, dove il disordine urbanistico si somma a una squallida banalità architettonica, dove strade senza senso e senza spazio supportano un ventaglio di edifici costruiti secondo un catalogo illimitato di materiali, da quelli che fanno moderno a quelli che fanno rustico, da quelli che fanno allegria a quelli che fanno lusso, fino a quelli odierni che fanno tanto ecologico.

L’iPhone del mio amico è un’impietosa radiografia del Ticino di oggi, ovviamente non solo del Locarnese. Illustra senza nostrana censura una situazione di degrado urbanistico e architettonico che – forse – è oramai comune a molte altre situazioni geografiche, dentro e fuori i confini del nostro paese: ma questo degrado da noi è particolarmente offensivo sia per l’incomparabile paesaggio in cui è immerso, sia per la sua densità e prevalenza, sia perché sfilacciato lungo chilometri e chilometri di territorio, da Chiasso in su. Tralascio per necessità di sintesi quanto dissi al mio interlocutore sulla gestione dei territori comunali, ma mi soffermo su quanto gli dissi in merito al mercato immobiliare nel Ticino. Dei molti, anzi moltissimi, che da questo mercato sono esclusi. Della triade formata da committente, progettista, esecutore.

Committente, progettista, esecutore

Certo, per forza di cose banalizzo e semplifico, ma credo si possa affermare che questa desolante architettura spalmata sul territorio cantonale sia sorta nella complicità che lega tra loro il committente, il progettista e l’esecutore. Il mercato immobiliare è oggi ridotto a creare architettura come merce da vendere e ha messo in trappola questi tre attori, inducendoli a perseguire in comune tale obiettivo. Traduzione: il committente sceglie un progettista che disegni senza tante storie quello che lui vuole, ma possibilmente banale e in una buona media tra molti gusti per vendere senza problemi; il progettista disegna sotto dettatura dal suo committente, attento a ogni virgola del Piano Regolatore così da non avere grattacapi per i permessi; l’esecutore, l’impresa è ovviamente generale, così da avere un bel prezzo fisso e non se ne parla più, e i lavori li appalti pure a chi vuole.

Ecco, è con queste complicità che sorgono – soprattutto – le case d’appartamento e i condomini. Le prime raramente sono raggruppate in piani di quartiere, ma ognuna sorge nella mediocrità che gli è propria: appartamenti al piano terra con spazio verde e grill chiusi tra siepi, finestre grandi per i soggiorni, medie per le camere, più piccole per i WC, balconi, rampa d’accesso al parcheggio, un po’ di asfalto, scampolo di verde e due alberelli. Edifici che invadono generalmente il paesaggio di pianura, dalle periferie delle città fino alle aree finora incontaminate ai margini dei villaggi, oppure isolati in contesti che una volta si definivano ameni: e sono quelli che – in definitiva – sommati l’uno all’altro arrecano i maggiori danni al paesaggio, urbano o agreste che sia.

I secondi, i condomini, vanno a conquistare gli ultimi scampoli ancora liberi sulle colline, dove il grosso del danno è oramai già stato fatto anni addietro. Anzi, ci si chiede ad esempio se non sarebbe meglio costruire tutto il Monte Brè, ma proprio tutto, togliendo gli ultimi scampoli di verde, così da far almeno sembrare il Brè un unico grande edificio, con i piedi nel lago e la testa tra le nuvole.

Dentro questa triade non vi è però parità di ruolo, uno solo comanda: il Committente. È nella sua persona che si trova il nocciolo del problema – come da sempre, come insegna la storia dell’architettura. Il committente è sempre stato determinante, sia esso il «principe illuminato» del Rinascimento o l’industriale o il costruttore o l’investitore. Sono quei protagonisti capaci di trovare l’architetto in grado di progettare le sue concezioni dell’abitare o del lavorare, capaci di capire le idee che l’architetto va elaborando, sostenendole anche quando necessario, nell’obiettivo di realizzare soluzioni e opere importanti, tali da migliorare la vita di chi le abita o vi lavora, le città in cui si trovano. È così che Michelangelo ha potuto progettare la Biblioteca Laurenziana, Francesco Borromini il San Carlino a Roma, Domenico Trezzini la città di San Pietroburgo, John Wood il Circus di Bath, Frank Lloyd Wright la fabbrica Johnson a Racine, Adriano Olivetti gli edifici a Ivrea, mentre industrie hanno affidato le loro fabbriche a Louis Kahn, a Pier Luigi Nervi o a Angelo Mangiarotti.

Un mercato immobiliare escluso ai giovani

Non sto parlando della luna. Tanto è vero che pure da noi in Ticino questa cultura, questa capacità di promuovere un’architettura innovativa ha avuto molti committenti, che con lungimiranza (e rischiando di proprio) hanno affidato opere anche importanti a giovani architetti, pur di sostenere idee e modi progettuali che differivano dalla prassi corrente allora in vigore. Architetti molto giovani: Bruno Brunoni aveva 30 anni quando realizzò la Clinica Sant’Agnese a Muralto nel 1936, Rino Tami 31 anni quando costruì la chiesa del Sacro Cuore a Bellinzona nel 1939; a 33 anni Alberto Camenzind la fabbrica La Sintetica a Chiasso nel 1947, a 29 anni Peppo Brivio la stazione di partenza della funivia per Cardada nel 1952, a 26 anni Tita Carloni con Camenisch l’Albergo Arizona a Lugano nel 1959, a 18 Mario Botta realizzò la casa parrocchiale di Genestrerio nel 1963, a 28 anni Lio Galfetti la scuola materna di Biasca nel 1964, a 27 Flora Ruchat la Scuola materna di Chiasso nel 1964. E così via.

Oggi siamo lontani anni luce da quel momento storico, eccezioni a parte. La luce del Principe Illuminato si è spenta. Mentre ai giovani rimangono villette e riattazioni, o qualche concorso vinto, dal campo immobiliare sono perlopiù esclusi: il quadro di quanto si costruisce tra case d’appartamento, immobili per uffici, fabbriche, depositi e centri d’acquisto è desolante. Non sono affatto considerazioni campate in aria: se Archi è una rivista che pubblica il meglio della nostra architettura, ebbene andate a sfogliare gli ultimi 5 anni, gli ultimi 30 numeri, dal 2008 al 2013. Vi accorgerete che il 65% di architetture pubblicate sono delle case unifamiliari, il 28% case plurifamiliari (molte sovvenzionate) e 8% immobili per uffici. In totale sono 108 edifici: ma nel solo 2012 i privati hanno investito 2 miliardi nella costruzione.

Il mercato immobiliare, insomma, è sostanzialmente precluso ai giovani architetti. Anche se, nella realtà del costruito, questo costituisce la maggior fetta del volume che ogni anno è costruito.

Cultura

Questo mettere all’angolo i migliori architetti è allora da imputare all’assenza – o meglio alla scomparsa – di ciò che con un termine generale si può chiamare cultura. Nel senso che oggi il lavoro del committente è sempre più in mano a persone che finora hanno svolto tutt’altra attività, e si sono buttati nell’immobiliare per puro calcolo economico. Per guadagnare soldi, certo non per «... l’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo» (dalla voce Cultura dell’enciclopedia Treccani).

Leggi anche il Diario successivo (Archi 6/2014) sul tema: «Scovare i giovani bravi architetti»

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