La piaz­za ne­ces­sa­ria

Il lockdown ci ha portato a misurare l'importanza dello spazio pubblico. Ma il terzo millennio già aveva rivelato un approccio nuovo all'appropriazione degli spazi, innervato delle potenzialità del digitale: dalle grandi occupazioni di Wall Street, Puerta del Sol e Piazza Tahrir all'elaborazione di tecniche “dal basso” che portano gli abitanti a confrontarsi direttamente con l'assetto urbano tramite azioni innovative fuori dei canoni dell’urbanistica ufficiale.

Publikationsdatum
15-08-2021
Fulvio Irace
Architetto e critico, professore di storia dell’architettura contemporanea dell’AAM e alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano

Osservato dalle finestre, dai balconi, dalle terrazze delle nostre case, mai come in questo lungo, forzato lockdown lo spazio urbano ci è sembrato così indispensabile e necessario: visibile nella plastica estensione delle sue piazze e delle sue strade, ma inaccessibile. Come voyeur involontari, lo abbiamo spiato e abbiamo anche ammirato l’eleganza da maquette dei suoi vuoti, in una prospettiva che ha restituito alla distratta familiarità con cui siamo abituati a viverlo in situazioni di normalità, la visione inedita di una purezza quasi da catalogo storico. Non a caso si è generata una sterminata letteratura fotografica – sia autoriale che amatoriale – che ci ha rappresentato il mondo come una sequenza di palcoscenici vuoti, teatrini quasi alla maniera di Sironi o di Aldo Rossi, dove la presenza umana è congelata nell’assenza di corpi sostituiti solo da sguardi.

Un sogno distopico eppur calamitoso di un vuoto totale, contornato da facciate barocche, da quinte medievali, da squadrate fantasie razionaliste, da monumenti celebri o da dimesse scenografie di tutti i giorni. Papa Francesco che misura con il corpo inerme la vuota vastità di una piazza San Pietro nel lugubre preludio di un temporale di Pasqua o la surreale ricomparsa di ignari animali che sfilano in militare parata su tappeti di asfalto, in momentaneo abbandono dei loro abituali luoghi di confino.

Sono immagini che hanno costellato l’immaginario planetario riflesso da Instagram sulle finestre virtuali di Windows: ci hanno strappato un sorriso o un rammarico, ci hanno divertito o spaventato, ma ci hanno in ogni caso obbligato a riconsiderare l’importanza che lo spazio urbano riveste nelle nostre vite, insofferenti a contenersi in case come fortini assediati dal virus.

Se la pandemia ci ha messo di fronte al pericolo della preclusione dello spazio comune, altri eventi tuttavia vanno evocati per ricostruire la logica di comportamenti collettivi che a partire dall’inizio del terzo millennio hanno messo in chiaro, ognuno a suo modo, la necessità di rivedere i correnti paradigmi della nostra vita sociale e di conseguenza gli obiettivi della geo-urbanistica mondiale. Il 17 settembre 2011 Zuccotti Park a New York fu invaso da un’occupazione di protesta ampiamente coperta dai media con l’hashtag «Occupy Wall Street»: era la punta montante del disagio conseguente alla crisi dei subprime e della bolla immobiliare scoppiata nel 2006 e aggravata dal crollo della Lehman Brothers nel 2008. Una crisi di sistema che a scoppio immediato si propagò su tutti i versanti dell’economia planetaria, investendo più o meno tutti i paesi del globo.

All’inizio un centinaio di persone si riunirono in un accampamento spontaneo presto dotato però di punti di ristoro, di una televisione, di una radio che diffondeva le idee del movimento che fece subito proseliti dappertutto: dal 9 ottobre si moltiplicarono le manifestazioni in oltre 90 città in 82 diversi paesi. Tanto che solo alla fine del 2011 la pagina Meetup «Occupiamo Insieme» elencava 2760 comunità promotrici di cccupazioni in tutto il mondo.

In Spagna, il 15 maggio 2011, in occasione delle elezioni amministrative, in segno di protesta contro il governo incapace di rispondere in maniera adeguata alla gravità della bancarotta finanziaria del paese, scese in strada il Movimiento 15-M, più noto come movimento degli Indignados, che fece di Puerta del Sol l’hub di un vero e proprio sommovimento nazionale.

Più o meno in tutti i casi, musica e comizi estemporanei caratterizzarono la protesta che coinvolgeva trasversalmente più generazioni esprimendo un disagio che esigeva di essere rappresentato in pubblico, come se la piazza fosse la scena di un dramma corale. Forse per la prima volta dopo lunghi decenni, la questione dello spazio pubblico come «common» usciva dal dibattito di architetti, sociologi e urbanisti per contendere all’uso turistico, commerciale e di intrattenimento delle strade e delle piazze una visione alternativa, un’affermazione forte e motivata delle ragioni primarie della città come polis.

Sempre nel 2011, la «primavera araba» che scosse violentemente l’Egitto contro il regime di Mubarak trasformò piazza Tahrir al Cairo nell’epicentro di una rivolta repressa nel sangue: ancora una volta, nell’era della comunicazione digitale, si rese necessaria la testimonianza fisica del corpo nello spazio fisico della città: come gli gnomi di Wall Street, uomini e donne arabe dimisero gli abiti di involontari (o forzati) hikikomori,1 bucando lo schermo di tablet e cellulari per ridare significato politico ai luoghi della città. Analogamente nel 2014 l’«umbrella revolution» – come vennero definite le manifestazioni per il ripristino della democrazia in una Hong Kong passata di mano alla Cina – ridisegnò la topografia della metropoli asiatica con la saturazione degli spazi di circolazione e di sosta grazie alla massiccia invasione di cittadini di ogni ordine e grado.

Scendere in piazza fu per tutto il Novecento la pratica di lotta dei movimenti dei lavoratori che sfilavano per rivendicazioni salariali o sociali: nel XXI secolo, la diffusione dei social e l’acutizzarsi di quella che è stata definita «cultura antispaziale» ha prospettato una nuova condizione nell’organizzazione delle comunità. La connettività di internet ha sfumato (abolito?) i confini che definivano il concetto di territorio, riconfigurando le abituali relazioni in termini di spazio e di tempo. La presenza fisica è sostituita dall’ubiquità dei network e la spazialità classica inghiottita dalla rete dei bit.

L’avevano previsto le avanguardie tecnologiche degli anni Sessanta, Archigram più di tutti con la Plug-in City di Peter Cook:2 la Computer City di Dennis Crompton addirittura nel 1964 aveva descritto la metropoli del prossimo futuro come una rete di flussi e di traffici (di persone, di cose, di informazioni) lungo i binari immateriali di quella che oggi chiamiamo civiltà digitale.3 Allora sembrava una promessa di libertà: il preludio a un’era «leggera», dove, come nella Walken City, la città di pietra e di cemento faceva da sfondo archeologico all’architettura meccanica della mobilità.

Portando al limite la pratica della reclusione obbligata per motivi sanitari, la pandemia ha messo in drammatica evidenza i limiti della tecnologia come strumento per comunicare: Zoom ha potuto supplire in larga parte ai problemi del distanziamento e l’uso generalizzato dello smart working ci ha permesso di mantenere un contatto di lavoro col mondo, ma hanno anche rivelato l’insostenibilità di un mondo completamente virtuale.

Non a caso, l’allentamento progressivo del lockdown ha corrisposto alla vertiginosa richiesta sociale di tornare in strada, costringendo governi e autorità municipali a rivedere le regole di occupazione del suolo pubblico. Un’esplosione di dehors sta segnando dappertutto nelle nostre città quella rinascita della vita di strada che era stata il campo di battaglia, già negli anni Sessanta del secolo scorso, della revisione critica dell’urbanistica moderna e ha rinnovato l’esigenza di una fattiva riflessione sull’importanza del «free space» nella progettazione dei futuri spazi dell’abitazione, del lavoro e degli edifici collettivi.

Nel 2012, nell’esposizione Common Ground della Biennale di Venezia diretta da David Chipperfield, il lavoro fotografico di Marisa González documentò in maniera efficace la riappropriazione della piazza all’interno della Hong Kong and Shanghai Bank da parte di donne che ogni domenica vi si riuniscono trasformandolo in uno spazio domestico dove incontrarsi, mangiare, chiacchierare, pregare ecc. Se nel grattacielo di Foster l’uso non era programmato ma risultato di una spontanea riconversione, nel Museu de Arte de São Paulo, progettato da Lina Bo Bardi, la decisione di sollevare il corpo delle gallerie sopra il suolo implica programmaticamente l’occupazione dello spazio sottostante come luogo di ritrovo informale, stabilendo una connessione diretta tra la forma dell’edificio e il suo ambiente esterno. L’affollarsi delle persone dentro e fuori un’architettura pubblica, come dimostra ad esempio la Casa del Fascio di Terragni a Como, ne modifica la percezione, sostituendo alla retorica inevitabile della sua dedicazione la vitalità della strada.

Negli ultimi anni più vicini a noi, la riscoperta dei vuoti urbani è stata alla base della cosiddetta «urbanistica tattica»: una strategia di ridisegni e riuso a volume zero degli interstizi urbani, che in qualche modo ha riattivato la logica rivoluzionaria adottata ad esempio da Aldo van Eyck nell’Amsterdam dell’immediato dopoguerra con la progettazione dei playgrounds. Nel clima di revisione dei CIAM alimentato dalle polemiche e dalla proposte del Team X, il tema della «life in the street» divenne centrale nel programma di una nuova architettura sociale intesa a superare il razionalismo analitico della città funzionale. Il lavoro congiunto di artisti, fotografi, teorici ed architetti contribuì alla creazione di una forte drammaturgia che le fotografie di Nigel Henderson – ampiamente utilizzate da van Eyck e soprattutto da Alison e Peter Smithson – resero credibili e immediate per il rilancio della vita di quartiere. Al punto da contrapporre all’astratta Grille CIAM imposta da Le Corbusier, la «griglia» disegnata a terra dai bambini londinesi per i loro giochi spontanei nella strada.

La Grille di Le Corbusier era incentrata sullo zoning e dunque sulla divisione analitica dello spazio nei diversi nuclei delle funzioni principali, residenza, lavoro, industria e tempo libero.

Con un atto irriverente, gli Smithson proposero di svolgere il vecchio tracciato invertendone i significati: al primo piano figurava infatti la house-street-relationship, seguita dalla house-street-district-cities e da una catena di associazioni simile a quelle usate nel 1952 nel progetto del Golden Lane a Londra. Il focus progettuale si spostava dal paesaggio costruito a quello delle relazioni e del gioco.

Più o meno negli stessi anni, negli Stati Uniti la vibrante denuncia di Jane Jacobs nel suo fortunato Vita e morte delle grandi città4 denuncia gli esiti critici della pianificazione che produce edifici isolati inseriti in spazi vuoti simili a un «ben curato, dignitoso cimitero urbano» e ad essi contrappone la strada di quartiere e le pratiche di vicinato: quelle stesse, si badi bene, che si vanno oggi sostenendo con il concetto della città di prossimità o dei 15 minuti. Sulla convinzione che lo spazio all’esterno degli edifici è di fatto l’unico, vero spazio collettivo, Bernard Rudofsky scriverà pagine importanti (come quelle di Streets for People),5 stendendo quasi un manifesto delle opportunità da sperimentare. Nuove, coraggiose prassi per la definizione dell’ambiente: la strada da elemento funzionale diventa un esterno da abitare e dunque propulsore di collettività. Il vasto repertorio di luoghi collettivi – strade, ma anche portici, logge, scalinate ecc. – proposto da Rudofsky tradisce le sue origini e la profonda conoscenza della città europea così generosamente predisposta per tradizione millenaria a quell’ideale di metropoli pedonale che cercherà di far conoscere agli americani e di diffondere con la sua multiforme attività di organizzatore di mostre, di scrittore, di architetto. La sua azione si riconduce dunque perfettamente al laboratorio europeo del dopoguerra, condividendone appieno il disagio del panorama urbano contemporaneo e il rifiuto di un’architettura della ricostruzione che si riduca alla sola risoluzione di problemi funzionali (ancorché nobili, come quelli di costruire la città per tutti) senza coinvolgere le comunità e quindi diventare un vero tema sociale.

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Note

  1. Con questo termine si tende a descrivere una sindrome che colpisce giovani e giovanissimi. Il significato di hikikomori, parola giapponese che deriva dal verbo hiku (tirare indietro) e komoru (ritirarsi), è «stare in disparte, isolarsi».
  2. Plug-in City è una delle tante visionarie creazioni prodotte negli anni Sessanta dal gruppo britannico di architetti Archigram, di cui Cook era membro fondatore. Una «megastruttura» che incorpora residenze, vie d’accesso e servizi essenziali per gli abitanti, Plug-in City è stata progettata per incoraggiare il cambiamento attraverso l’obsolescenza: ogni edificio è rimovibile, e una «gru» permanente facilita la ricostruzione continua.
  3. Computer City di Dennis Crompton del 1964 è un progetto a stampa e pennarello colorato su film plastico montato su cartone.
  4. J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulla metropoli americana, Einaudi, Torino 1969 (ed. orig. New York 1961).
  5. B. Rudofsky, Streets for People. A Primer for Americans, New York 1969.

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